Veltroni e i linciaggi di ieri e di oggi
“CHI AMA LA LIBERTÀ non può accettare che un uomo venga linciato e straziato in quel modo, senza un capo d’accusa, un processo, la possibilità di difendersi. Questo lo fanno i dittatori e i regimi”.
WALTER VELTRONI, “LA CONDANNA”
DESCRITTO OGGI, il corpo di Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli massacrato dalla folla nel settembre del 1944, è prima di tutto l’immagine angosciante di quella disumanità da cui ci sentiamo assediati, soffocati. La “Condanna” ci parla di molte cose – della nostra storia peggiore nei giorni in cui si commemora l’eccidio delle Fosse Ardeatine; e anche di un giornalismo intriso di noia e disincanto, a volte riscattato dall’entusiasmo dei giovani – ma è l’affollarsi incombente di mostri e mostruosità, allora come oggi, a farci stare male. Dopo la resa dell’università di Torino all’antisemitismo di una minoranza urlante di studenti, Luca Ricolfi, nell’intervista alla “Stampa” di venerdì scorso, ha saputo rendere questo malessere con domande che contengono in sé, purtroppo, le risposte: “Siamo sicuri che l’indulgenza del mondo progressista verso la mentalità woke, la timidezza nel condannare i tanti episodi di squadrismo ‘antifascista’, la iper-politicizzazione delle nostre discipline sociali, la costante demonizzazione degli avversari, non abbiano contribuito a chiudere gli spazi del dialogo e della tolleranza?”.
Sì, pensiamo esista un filo rosso che lega l’odio social dei nostri tempi alla scena bestiale del povero Carretta, un fascista della prima ora che, tuttavia, agevolerà la fuga dal suo carcere dei detenuti politici e futuri capi dello Stato, Saragat e Pertini. Nulla lo salverà dalla furia cieca della folla, dapprima gettato sulle rotaie del tram (ma il conducente eroe, Angelo Salvatori, si rifiuta di farne scempio) e quindi affogato nel Tevere a colpi di remo mentre annaspa, ormai allo stremo. In quella ferocia c’è sicuramente il desiderio di vendetta di un popolo che ha sofferto sulle proprie carni la bestia nazifascista. Eppure, quella giustizia sommaria (intrisa di malinteso “antifascismo”, aggiungiamo) “è quanto di più lontano dagli ideali e dalle regole della democrazia”, scrive Veltroni. Così come l’antifascismo rituale del nostro tempo troppo spesso si presta a un uso strumentale contro chi non la pensa come noi, in mancanza di altri argomenti. Non so dire se nella sua “Condanna”, l’autore abbia visto il dipanarsi, tra ieri e oggi, del filo rosso della “demonizzazione” della sinistra nei confronti della destra, e viceversa. Eppure, c’è stato un tempo non lontano nel quale le due parti riuscivano a trovare le medesime espressioni di condanna verso i violenti. Walter ricorderà sicuramente il dibattito sul palco di Atreju riguardo a un libro che raccontava dei colloqui riservati, e animati dagli stessi timori per le sorti del Paese, tra Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante negli Anni di piombo. Quel giorno a parlarne con noi, davanti a tanta gente di destra, c’erano Giorgia Meloni, Bianca Berlinguer, Ignazio La Russa, Massimo Magliaro e Luca Telese. Era il 2019, ma sembra trascorso un secolo.
Ps. Chi scrive si augura che, un giorno, quando si sentirà pronto, Walter Veltroni scriva la storia di un segretario di partito che, all’apice del successo, decide, da un giorno all’altro, di abbandonare la politica e con essa la vita privilegiata di un leader per dedicarsi alle sue vere passioni, i libri e il cinema. Mi prenoto per presentarlo.
Antonio Padellaro - il Fatto Quotidiano
00184 Roma, via di Sant’erasmo n°2 lettere@ilfattoquotidiano.it