L’ultima “fuga” di Pollini, il virtuoso del pianoforte
A 18 vinse lo Chopin con Rubinstein in giuria: “Questo suona meglio di noi”. Anche il mentore Benedetti Michelangeli ammise di “aver poco da insegnargli”
MAURIZIO Pollini, pianista e direttore d’orchestra, era “molto selettivo” nella scelta dei maestri e delle opere da interpretare: innanzitutto Bach, Mozart e Schubert. Tra i tanti capolavori, ricordiamo “Concerti per pianoforte” di Bartok con Abbado, premiati ai Grammy come “Notturni” di Chopin; “Sonate per pianoforte” di Beethoven; il cofanetto “The Art of Maurizio Pollini”
Il pianista è un detective. Indaga sull’uomo, e sul Tempo. Quando Maurizio Pollini affrontava Chopin o Beethoven la sua missione era cogliere il mistero di un’anima (e per estensione di un popolo) annidata fra i tasti bianchi e neri. L’altro è lì dentro, magari da secoli: devi decifrarlo, prima di onorarlo. Solo dopo aver visto l’ombra del compositore far capolino da quei labirinti di corde e martelletti, puoi citarlo, renderne i colori, le sfumature, il carattere. Infine, con le dita ormai disposte a correre dei rischi, eccoti alle prese con l’interpretazione. Azzardi un “rubato”, modificando il corso della vita di una semibiscroma, compensi ed esiti su una voragine di infinito, finché il Tempo del Gran Polacco diventa il tuo.
Pollini, scomparso a 82 anni, era questo. Un investigatore alle prese con l’enigma dell’arte. Virtuoso come pochi altri, consapevole dell’umiltà e della prudenza che occorrono per incamminarsi entro gli spartiti dei Giganti senza smarrirsi, nell’incessante ricerca di sentieri inesplorati. Un compito che pretende un’intera esistenza: ti siedi ragazzino davanti al pianoforte e scopri subito che, come diceva lui, quello è “uno strumento neutrale che ha la possibilità illimitata di trasformarsi”. Il piano è un’orchestra, e una voce. Suona e canta.
Il bimbo Pollini arriva di fronte alla tastiera nutrito di amore per la Forma e per la Misura. Suo padre Gino è architetto razionalista, non ama gli orpelli, lo dimostra progettando le Officine Olivetti. Lo zio materno, Fausto Melotti, scolpisce. Edifici, oggetti. La solidità dell’estro. Maurizio accoglie il proprio Dna ma sente di dover procedere nella direzione opposta: l’ineffabile. A 15 anni si aggiudica il secondo premio al contest di Ginevra, cedendo il passo solo a Martha Argerich. A 18 vince il Concorso Chopin di Varsavia, in giuria Arthur Rubinstein che pronuncia la storica sentenza: “Questo giovane suona già tecnicamente meglio di tutti noi!”. Pollini si gode l’endorsement ballando, quella notte. Ma sa che è solo ai piedi della sua montagna. Prende lezioni da
Arturo Benedetti Michelangeli. Tra il mentore e l’allievo è tutto un suggerire, cogliere, eludere. Annusare il genio. Non dura molto, l’apprendistato. Il Maestro ne esce comunque consapevole di sé. La tecnica superiore riconosciuta da Rubinstein, il “poco da insegnare” di Benedetti Michelangeli. Attraversa l’atlantico per la Seconda sonata di Boulez, si prende il mondo da concertista e nelle sale di incisione. Restituisce al pubblico lo splendore giocoso di Mozart, la malinconia di Liszt, la sensualità di Brahms, la delicatezza di Schubert. La modernità scandalosa di Bach. Si intrufola nella seconda scuola di Vienna di Berg e Schoenberg, cerca di trattenere l’esuberanza disperata di Schumann. Flirta con i contemporanei: Nono, Stockhausen, Berio.
Gli resta l’assillo del Tempo dentro la Forma, tende agguati al metronomo cercando di eluderne la dittatura, comprende l’immensità del Silenzio che fa da ouverture a ogni prossima nota. Con Claudio Abbado instaura un sodalizio che passa fatalmente per La Scala, ma non solo. La bacchetta e le mani, due universi diversamente sinfonici.
Da direttore d’orchestra Pollini esordisce a Pesaro con la rossiniana La donna del lago, che registra per la Fonit Cetra guidata dall’ex sovrintendente scaligero Carlo Fontana, che oggi ne ricorda l’amicizia e la statura artistica. E alla Scala sarà la camera ardente di Pollini, l’italiano che quando non suonava non la mandava a dire all’arroganza del potere. A Berlusconi riservò bordate poderose non solo per i tagli alla cultura, ma anche per il tentativo di assoggettare la magistratura ai diktat dell’esecutivo. Denunciò l’evidenza “dell’innamoramento della criminalità per la Forza Italia del ’94”, le tentazioni di “autoritarismo” del Cav, “la possibilità incresciosa che la democrazia sia in pericolo di fronte a questa esibita corruzione”. Poi tornava al pianoforte. Negli ultimi anni sentiva “di tornare ragazzo con la musica”. Perché l’investigazione sull’arte non era conclusa.