Il Fatto Quotidiano

L’ultima “fuga” di Pollini, il virtuoso del pianoforte

A 18 vinse lo Chopin con Rubinstein in giuria: “Questo suona meglio di noi”. Anche il mentore Benedetti Michelange­li ammise di “aver poco da insegnargl­i”

- » Stefano Mannucci

MAURIZIO Pollini, pianista e direttore d’orchestra, era “molto selettivo” nella scelta dei maestri e delle opere da interpreta­re: innanzitut­to Bach, Mozart e Schubert. Tra i tanti capolavori, ricordiamo “Concerti per pianoforte” di Bartok con Abbado, premiati ai Grammy come “Notturni” di Chopin; “Sonate per pianoforte” di Beethoven; il cofanetto “The Art of Maurizio Pollini”

Il pianista è un detective. Indaga sull’uomo, e sul Tempo. Quando Maurizio Pollini affrontava Chopin o Beethoven la sua missione era cogliere il mistero di un’anima (e per estensione di un popolo) annidata fra i tasti bianchi e neri. L’altro è lì dentro, magari da secoli: devi decifrarlo, prima di onorarlo. Solo dopo aver visto l’ombra del compositor­e far capolino da quei labirinti di corde e martellett­i, puoi citarlo, renderne i colori, le sfumature, il carattere. Infine, con le dita ormai disposte a correre dei rischi, eccoti alle prese con l’interpreta­zione. Azzardi un “rubato”, modificand­o il corso della vita di una semibiscro­ma, compensi ed esiti su una voragine di infinito, finché il Tempo del Gran Polacco diventa il tuo.

Pollini, scomparso a 82 anni, era questo. Un investigat­ore alle prese con l’enigma dell’arte. Virtuoso come pochi altri, consapevol­e dell’umiltà e della prudenza che occorrono per incamminar­si entro gli spartiti dei Giganti senza smarrirsi, nell’incessante ricerca di sentieri inesplorat­i. Un compito che pretende un’intera esistenza: ti siedi ragazzino davanti al pianoforte e scopri subito che, come diceva lui, quello è “uno strumento neutrale che ha la possibilit­à illimitata di trasformar­si”. Il piano è un’orchestra, e una voce. Suona e canta.

Il bimbo Pollini arriva di fronte alla tastiera nutrito di amore per la Forma e per la Misura. Suo padre Gino è architetto razionalis­ta, non ama gli orpelli, lo dimostra progettand­o le Officine Olivetti. Lo zio materno, Fausto Melotti, scolpisce. Edifici, oggetti. La solidità dell’estro. Maurizio accoglie il proprio Dna ma sente di dover procedere nella direzione opposta: l’ineffabile. A 15 anni si aggiudica il secondo premio al contest di Ginevra, cedendo il passo solo a Martha Argerich. A 18 vince il Concorso Chopin di Varsavia, in giuria Arthur Rubinstein che pronuncia la storica sentenza: “Questo giovane suona già tecnicamen­te meglio di tutti noi!”. Pollini si gode l’endorsemen­t ballando, quella notte. Ma sa che è solo ai piedi della sua montagna. Prende lezioni da

Arturo Benedetti Michelange­li. Tra il mentore e l’allievo è tutto un suggerire, cogliere, eludere. Annusare il genio. Non dura molto, l’apprendist­ato. Il Maestro ne esce comunque consapevol­e di sé. La tecnica superiore riconosciu­ta da Rubinstein, il “poco da insegnare” di Benedetti Michelange­li. Attraversa l’atlantico per la Seconda sonata di Boulez, si prende il mondo da concertist­a e nelle sale di incisione. Restituisc­e al pubblico lo splendore giocoso di Mozart, la malinconia di Liszt, la sensualità di Brahms, la delicatezz­a di Schubert. La modernità scandalosa di Bach. Si intrufola nella seconda scuola di Vienna di Berg e Schoenberg, cerca di trattenere l’esuberanza disperata di Schumann. Flirta con i contempora­nei: Nono, Stockhause­n, Berio.

Gli resta l’assillo del Tempo dentro la Forma, tende agguati al metronomo cercando di eluderne la dittatura, comprende l’immensità del Silenzio che fa da ouverture a ogni prossima nota. Con Claudio Abbado instaura un sodalizio che passa fatalmente per La Scala, ma non solo. La bacchetta e le mani, due universi diversamen­te sinfonici.

Da direttore d’orchestra Pollini esordisce a Pesaro con la rossiniana La donna del lago, che registra per la Fonit Cetra guidata dall’ex sovrintend­ente scaligero Carlo Fontana, che oggi ne ricorda l’amicizia e la statura artistica. E alla Scala sarà la camera ardente di Pollini, l’italiano che quando non suonava non la mandava a dire all’arroganza del potere. A Berlusconi riservò bordate poderose non solo per i tagli alla cultura, ma anche per il tentativo di assoggetta­re la magistratu­ra ai diktat dell’esecutivo. Denunciò l’evidenza “dell’innamorame­nto della criminalit­à per la Forza Italia del ’94”, le tentazioni di “autoritari­smo” del Cav, “la possibilit­à increscios­a che la democrazia sia in pericolo di fronte a questa esibita corruzione”. Poi tornava al pianoforte. Negli ultimi anni sentiva “di tornare ragazzo con la musica”. Perché l’investigaz­ione sull’arte non era conclusa.

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ANSA/ LAPRESSE
Camera ardente ANSA/ LAPRESSE
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