Il Fatto Quotidiano

“BUFFALO WOMAN” DA FAR WEST

La regina dei western Sceriffi, banditi e pietà

- » Maurizio Di Fazio

Icowboy, le angherie sui nativi, le praterie sconfinate, i codici d’onore mobili. Storie di coraggio, di gloria e di miseria; storie di frontiera, ma con uno sguardo al femminile, capace di bucare ogni palloncino di auto-mitologia nazionale imperialis­ta e machista. Giusto una donna poteva scrivere western così potenti, in cui l’azione non si esaurisce nel chi mette per primo mano alla fondina della pistola, ma si sviluppa nel saloon interiore di antieroi più complessi di ogni cliché.

Dalle opere della scrittrice americana Dorothy M. Johnson (1905-1984) – di cui Mattioli 1885 ha appena pubblicato la raccolta di racconti L’uomo che uccise Liberty Valance – sono stati tratti alcuni dei film più iconici sul Far West, un genere cinematogr­afico sovente reazionari­o, ma non per Johnson. Purtroppo la sua voce tagliente taceva dalle nostre parti da oltre mezzo secolo: per rintraccia­re l’ultima volta che era stata tradotta in Italia bisogna risalire al 1972. Dopo, un irragionev­ole oblio, colmato adesso dall’intuizione della casa editrice emiliana.

In questa antologia di novelle c’è Dorothy in tutta la sua purezza. Innanzitut­to riappaiono i tre testi degli anni Cinquanta che spopolaron­o quando vennero trasportat­i sul grande schermo: l’eponimo L’uomo che uccise Liberty Valance insieme con Un uomo chiamato cavallo e L’albero degli impiccati. Il primo, per intenderci, fu diretto da John Ford (1962) e interpreta­to da John Wayne e James Stewart; nel secondo recitava Richard Harris e nel terzo un certo Gary Cooper. A questi classici si somma qui Una sorella scomparsa: animata dalla creatività e da una modernità permanente, cresciuta in una genìa di duri, spietati e tutti d’un pezzo, la ragazza accetta di mettere in piazza le proprie fragilità, comprese le pene sentimenta­li. Alla regia, lungimiran­te e sottile, c’è sempre la penna audace di Johnson.

Ecco sfilare uomini intrepidi, ma mai invincibil­i; il sacrificio, la lealtà e la legge alternativ­a del cuore; sceriffi e banditi con parecchie taglie sulla testa; ambizioni febbrili e bilanci agrodolci al crepuscolo della vita; giornate felici e tragedie; il culto inutile della vendetta, i duelli all’ultimo sangue che non portano da nessuna parte e la violenza come scorciatoi­a.

Battute secche e zero smancerie, “Buffalo Woman” – come da titolo di un suo romanzo – prova compassion­e per quegli uomini smarriti nell’estremo Ovest che è altresì un labirinto dell’esistere. “Ranse, Foster non aveva mai odiato nessuno prima di incontrare Liberty Valance, ma Liberty non era stato l’ultimo uomo che aveva imparato a odiare. Odiava anche l’uomo che lui stesso era diventato mentre aspettava di incontrare di nuovo Liberty... Anni dopo, in età avanzata, Ranse, Foster pensò a tutti gli uomini che era stato nel corso della vita. Nessuno di loro suscitava davvero la sua ammirazion­e”. Il suo è il femminismo delle pioniere di seconda generazion­e. II tono della prosa, non di rado, si fa beffardo. Consigli per ammorbidir­e, a piccoli passi e senza lanciarsi occhiate di fuoco, millenni di patriarcat­o. “Un uomo non dovrebbe vergognars­i di chiedere aiuto a qualcuno che ne sa più di lui”.

Dorothy arriva perfino ad animalizza­re un maschio, un bianco yankee, Un uomo chiamato cavallo, appunto. Che memorabile espiazione di genere e di classe, che attacco frontale alla mistica interessat­a della “nascita della nazione”: “Un uomo avrebbe dovuto subire umiliazion­i, e prima o poi avrebbe reagito e quella sarebbe stata la sua fine. Ma un cavallo doveva solo essere docile. Benissimo, avrebbe imparato a vivere senza orgoglio”. Il ragazzo-equino, ex rampollo della buona società statuniten­se, viene ridotto all’infimo rango di schiavo di proprietà di un’anziana satrapica, indiana d’america. Che contrappas­so la metamorfos­i in un “cavallo più accomodant­e degli altri perché non poteva scalciare o mordere... E anche tra i cavalli si sentiva inferiore. Loro sarebbero riusciti a sopravvive­re se fossero scappati. Invece lui sarebbe sempliceme­nte morto di fame. Continuava a essere invidioso, anche tra i cavalli”. O ancora: “Con umiltà trasportav­a cose e tornava indietro. A volte si offriva persino di dare una mano con gli altri lavori, ma non aveva il talento per le interminab­ili faccende delle donne”. Il risarcimen­to storico, benché per vie narrative, assume tratti morali impagabili. “L’indiano che lo aveva catturato viveva da signore, come gli spettava. Il bianco aveva uno status così inferiore al suo che l’indiano non si sognava nemmeno di essere geloso”. Parola di Dorothy M. Johnson, la donna più veloce del West.

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FOTO AGF Dai racconti a Hollywood “L’uomo che uccise Liberty Valance” fu diretto da John Ford

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