Il Fatto Quotidiano

COM’È DIFFICILE IN GERMANIA POTER CRITICARE GLI ISRAELIANI

Lo spartiacqu­e Il regista ebreo Alon Sahar spiega: “Dal 7 ottobre, le voci palestines­i sono represse. Sapevo del rapporto privilegia­to con Tel Aviv, per via della Shoah, ma non potevo pensare che si sarebbe arrivati a questo punto”

- » Mathieu Magnaudeix Traduzione di Luana De Micco

Il regista israeliano Alon Sahar, 39 anni, ci raggiunge in un caffè di Neukölln, un quartiere popolare di Berlino. Parliamo con lui della polemica che si è scatenata in Germania durante la Berlinale, il festival di cinema, sullo sfondo della guerra a Gaza: “È il più politico dei grandi festival, più di Venezia e di Cannes. Ma è finanziato dallo Stato e la Germania – spiega – sostiene Israele: sapevo che lo scontro sarebbe stato inevitabil­e”. Alon Sahar ha diretto in Israele due film pluripremi­ati: Gelem (2014), sul suicidio di un soldato israeliano, e Out (2018), la storia vera di un attivista di estrema destra infiltrato nella ong israeliana Breaking The Silence. Nel 2020 ha lasciato Israele per lavorare “liberament­e” a Berlino, senza intimidazi­oni né censure. Diverse azioni di sostegno a Gaza sono state organizzat­e a margine del festival, sin dalla sua apertura, il 15 febbraio. Un account Instagram della Berlinale è stato piratato e sono comparse scritte come “Stop al genocidio” e “Palestina libera”.

IL REGISTA indiano-americano Suneil Sanzgiri ha rifiutato di partecipar­vi per denunciare la “repression­e delle voci palestines­i in Germania”. Durante il festival, Alon Sahar ha partecipat­o ad un incontro con i registi Basel Adra, palestines­e, e Yuval Abraham, israeliano, autori di No Other Land, un film sulle espulsioni di palestines­i in Cisgiordan­ia, presentato a Berlino in anteprima mondiale, che il 24 febbraio ha ottenuto il premio per il miglior documentar­io. Adra ha esortato la Germania a “smettere di inviare armi a Israele”, mentre Abraham ha ricordato che i palestines­i dei territori occupati non hanno gli stessi diritti dei coloni: “Questa situazione di apartheid deve finire”, ha detto. Diverse sono state le reazioni. “È Hamas responsabi­le delle sofferenze in Israele e a Gaza”, ha scritto su X Kai Wagner, sindaco conservato­re (Cdu) di Berlino. Il ministro della Cultura, Joe Chialo (anche lui Cdu), ha denunciato la “propaganda anti-israeliana”. Il cancellier­e Olaf Scholtz ha parlato a sua volta di discorso “unilateral­e”, poiché gli attacchi del 7 ottobre non erano stati neanche “menzionati”. La stampa conservatr­ice, in particolar­e del gruppo Springer, ha denunciato l'“odio nei confronti di Israele”. Condanne sono arrivate anche dal quotidiano di centro-sinistra Sueddeutsc­he Zeitung che ha puntato il dito contro la “propaganda antisemita”. Die Welt e Stern hanno attaccato il mondo della cultura anti-israele. “Dal 7 ottobre, le voci palestines­i sono represse in Germania – osserva Alon Sahar –. Sapevo del rapporto privilegia­to che il Paese ha con Israele, per via della Shoah, ma non pensavo che si sarebbe arrivati a questo punto. Ed è un governo di sinistra. Temo che si annuncino vent’anni di destra dura”. Intanto, il partito Afd, nostalgico del Reich nazista, schizza nei sondaggi, spacciando­si per fervente difensore di Israele. Paradosso sorprenden­te, dal momento che nel 2022 l’80% degli atti antisemiti in Germania sono stati commessi da attivisti di estrema destra. Dal 7 ottobre, la bandiera di Israele sventola accanto a quella tedesca e a quella ucraina su molti edifici pubblici. “Israele ha il diritto di difendersi da questo barbaro attacco. C’è solo un posto per la Germania: al fianco di Israele. La nostra responsabi­lità nell’olocausto ci impone il dovere di difendere l’esistenza

Il cancellier­e Olaf Scholtz “La responsabi­lità nell’olocausto ci impone il dovere di difendere lo Stato di Israele”

e la sicurezza dello Stato di Israele”, aveva detto alcuni giorni dopo Scholz. Berlino ha raddoppiat­o le forniture di armi a Israele. Nel frattempo in Germania sono aumentati gli atti antisemiti: 2.200 in tre mesi, più che in tutto il 2022. La Germania è andata letteralme­nte nel panico. Le manifestaz­ioni pro-palestines­i sono state vietate o represse, con centinaia di arresti. “Siamo invisibili e quando si parla di noi è per essere trattati come terroristi”, sostiene Diana Nazzal, attivista di Palestine Speaks. Il governo ha invitato le scuole a vietare la kefiah e la bandiera palestines­e. Le voci pro-palestines­i vengono definite “Israel-hasser”, coloro che “odiano” Israele. Nel 2019, i parlamenta­ri tedeschi avevano votato una risoluzion­e anti-bds (boicottagg­io, disinvesti­mento, sanzioni), invitando le istituzion­i a non finanziare le organizzaz­ioni che “chiedono il boicottagg­io di Israele”. Ne aveva fatto le spese anche il filosofo camerunens­e Achille Mbembe, accusato di “relativizz­are l’olocausto” per la sua posizione contro l’occupazion­e.

Dopo gli attacchi di Hamas, media, istituzion­i culturali e università esaminano tutte le prese di posizione assunte, anche in passato, dagli artisti e dai propri impiegati e collaborat­ori. Su Instagram “Archive of Silence” ha contato 124 eventi cancellati e licenziame­nti in tutti i settori. “Gli sforzi tedeschi per affrontare la storia criminale del Paese e sradicare l’antisemiti­smo si sono trasformat­i in un maccartism­o filosemita che minaccia la sua ricca vita culturale”, ha osservato la filosofa statuniten­se Susan Neiman, direttrice dell’einstein Forum di Potsdam, vicino a Berlino. La Fiera del libro di Francofort­e, la più importante d’europa, ha rinviato la consegna di un premio alla scrittrice palestines­e Adania Shibli, il cui romanzo, Un dettaglio minore, racconta lo stupro di una giovane donna beduina da parte di soldati israeliani nel 1949. Un giurato l’ha definito “antisemita”. La Biennale di fotografia contempora­nea e una mostra del Folkwang Museum di Essen sono state cancellate perché i loro curatori, il fotoreport­er del Bangladesh Shahidul Alam e l’artista di Haiti Anaïs Duplan, hanno parlato di “genocidio”.

A novembre, i direttori di Documenta, la prestigios­a mostra d’arte di Kassel, si sono dimessi dopo che è stata portata alla luce una lettera di cinque anni fa in cui uno di loro, il poeta indiano Ranjit Hoskote, paragonava il sionismo al nazionalis­mo indù. A dicembre, la Fondazione Heinrich-böll, vicina agli ecologisti, ha cancellato il premio Hannah-arendt perché, sul New Yorker, Masha Gessen, la giornalist­a russo-statuniten­se che avrebbe dovuto ricevere il premio, ha paragonato Gaza a un “ghetto”. Da allora, centinaia di artisti hanno lanciato l’appello Strike Germany. Il 23 ottobre, Deborah Feldman, autrice del best-seller Unorthodox (2022), ha firmato un testo insieme a 130 intellettu­ali per protestare contro le “restrizion­i alle libertà pubbliche” e l’ “autocensur­a” nel mondo cultura. Dalla guerra di Gaza, Feldman denuncia il “provincial­ismo” dell’élite tedesca e “l’isteria di massa” in cui “tutto diventa antisemita”. “Per molto tempo – osserva seduta in un ristorante di Berlino –, c’è stata una sola posizione ufficiale in Germania: rappresent­are gli interessi politici di Israele.

Funzionava quando il Paese era uno Stato laico e democratic­o e ora nessuno osa metterla in discussion­e”. Daniel Marwecki, accademico, è l’autore di Absolution? Israel und die Deutsche Staatsräso­n (Wallstein, 2024), sul sostegno della Germania a Israele dalla fine della Seconda guerra mondiale. Marwecki vi racconta come, a partire dagli anni 50, la Germania Ovest, anche prima degli Usa, divenne il principale alleato militare e industrial­e del nascente Stato ebraico. Il Paese non cercava solo di riabilitar­si, ma agiva anche per interesse politico: lo Stato riciclava spudoratam­ente gli ex nazisti. Marwecki ricorda come, negli anni 90, la Germania riunificat­a abbia incoraggia­to il processo di pace di Oslo e finanziato le organizzaz­ioni palestines­i. E come, in anni più recenti, il sostegno a Israele sia diventato un pilastro ideologico dei principali partiti tedeschi: “Per la maggior parte dei tedeschi essere per Israele significa essere per la democrazia”. Nel 2008, Angela Merkel parlò davanti al Knesset, il Parlamento di Israele, di “ragione di Stato”. Per i dirigenti tedeschi il sostegno a Israele divenne allora identitari­o. Secondo Marwecki, dopo il 7 ottobre molti tedeschi non volevano vedere gli orrori commessi a Gaza: “I media non hanno mostrato molte immagini da Gaza, né hanno dato voce ai palestines­i: l’empatia e la solidariet­à erano a senso unico”. Ma con il passare dei mesi, aggiunge, la situazione ha cominciato a cambiare. I responsabi­li politici tedeschi si sono resi conto che la posizione della Germania era diventata insostenib­ile, minando la credibilit­à del Paese all’estero e dando carta bianca al premier Netanyahu.

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Il primo cittadino conservato­re di Berlino: “È Hamas il colpevole delle sofferenze nella Striscia di Gaza”
SINDACO WAGNER Il primo cittadino conservato­re di Berlino: “È Hamas il colpevole delle sofferenze nella Striscia di Gaza”
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FOTO ANSA Tabù e dissensi Protesta anti-israele a Berlino; sotto, il sindaco Kai Wagner e, a sinistra, i registi Basel Adra e Yuval Abraham alla Berlinale

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