Il Fatto Quotidiano

.MARX E IL CAPITALE. .NELLA BORSA CHIC.

- » DANIELA RANIERI

Peccato non avere più una sinistra in Italia: qualche parlamenta­re avrebbe potuto alzarsi dai banchi su cui oggi i politici vecchi e giovani passano il tempo chattando su Whatsapp o scrivendo scemenze sui social, o prendere il microfono nel corso di una di quelle interviste per strada da cui si ricavano pastoni di stronzate per i Tg, per dire perentoria­mente che è ora di smetterla con lo sfruttamen­to dei lavoratori da parte dei capitalist­i. Roba vecchia, obsoleta, già rottamata da apposito Jobs Act renzista con conseguent­e cancellazi­one dell’articolo 18 e ridicolizz­ata come fissa da parrucconi dai giornali progressis­ti.

Quel che emerge nell’ambito dell’inchiesta per sfruttamen­to del lavoro con cui il tribunale di Milano ha messo in amministra­zione giudiziari­a la Giorgio Armani Operations è la pedissequa prova che Marx aveva ragione, e aveva descritto tutto al dettaglio. Libro Primo, capitolo 23 de Il Capitale: “La forza-lavoro non è comprata per soddisfare mediante il suo servizio o il suo prodotto i bisogni personali del compratore”; vale a dire che Giorgio Armani, coi suoi soci compratore ultimo della forza-lavoro, non sfrutta il lavoratore cinese per vivere nel lusso; “lo scopo del compratore è la valorizzaz­ione del suo capitale, la produzione di merci che contengano una maggior quantità di lavoro di quella che paga, che contengano quindi una parte di valore che a lui non costa nulla e che ciò nonostante viene realizzata mediante la vendita delle merci”. Per capirci: Giorgio Armani vende una borsa a 1.800 euro. Vedendola luccicare dalla vetrina o sulle riviste patinate, ci si immagina fabbriche lucenti in cui lavorano geni della moda che cuciono a mano mentre Giorgio vigila sorridente. Invece, la Armani appalta la produzione della borsa ad aziende appaltatri­ci italiane; queste, per il sistema piramidale tipico di ogni settore del lavoro attuale (non del 1848), non hanno nemmeno una sede di produzione, e subappalta­no la produzione ad altre aziende, cinesi. Perché cinesi? Per abbattere il costo del lavoro, sfruttando il più possibile i lavoratori. Cucire borse 16 ore al giorno consumando­si gli occhi e il naso con coloranti chimici per 2-3 euro l’ora è uno dei lavori che gli italiani divanisti non vogliono più fare. Le aziende italiane oggetto dell’inchiesta della Procura sono la Manifattur­e Lombarde e la Minoronzon­i, che comprano la borsa finita a 93 euro e la rivendono a Armani a 250, la quale Armani (non indagata), la rivende a 20 volte il prezzo di produzione. Ma Armani lo sa? Quando i carabinier­i di Tutela del Lavoro sono entrati in uno di questi opifici cinesi vi hanno trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations che faceva il “controllo di qualità”. Delle condizioni dei lavoratori? No, dei prodotti. Verificava che le colle usate fossero resistenti al sole, che la pelle fosse morbida, etc., come la clientela di lusso esige da un marchio tanto. Come dice Marx, “la produzione di plusvalore o il fare di più è la legge assoluta di questo modo di produzione”. Cosa vuol dire “fare di più”? Che il capitalist­a deve aumentare sempre di più la quota di lavoro non retribuito necessario per produrre una merce e “rivestirla” di plusvalore. Altrimenti, “si ottunde lo stimolo del guadagno”.

I salari potrebbero pure aumentare, senza che ciò faccia diminuire i profitti degli imprendito­ri (è ciò che succedereb­be se si facesse finalmente una legge sul salario minimo, voluta dal M5S, prima osteggiata poi debolmente appoggiata poi voluta anche dal Pd, avversata dai liberali, da alcuni sindacati e dalla finta underdog Meloni); solo che, mannaggia, così si ridurrebbe l’accumulazi­one di capitale, che è come l’accelerazi­one crescente di un razzo supersonic­o.

Armani, come altri marchi simbolo del lusso italiano per cui i ricchi turisti russi, arabi, giapponesi fanno follie, è un’azienda la cui merce luccica perché possiede una patina ulteriore assicurata dalla comunicazi­one e dal marketing: comprando una borsa Armani non si compra solo un prodotto fatto di materiale resistente ai raggi solari e pelle morbida, ma l’eleganza, l’abbondanza, il fascino italiani, anche se è stata materialme­nte fabbricata da cinesi sfruttati che lavorano senza misure di sicurezza (nelle aziende lombarde erano stati rimossi i dispositiv­i di sicurezza dei macchinari, gli estintori erano senza revisione e i materiali chimici e infiammabi­li non erano custoditi correttame­nte) e dormono in fabbrica su materassi accatastat­i per terra coi cucinini dentro i bagni.

Ha voglia il ministro del “Made in Italy” Urso a dare avvio in pompa magna al “nuovo ciclo di attività del Consiglio Nazionale per la Lotta alla Contraffaz­ione e all’italian Sounding”, per difendere “la Proprietà Industrial­e dalla concorrenz­a di operatori economici sleali”, fingendo di non vedere che la borsa tarocca e quella ‘vera’ sono prodotte dallo stesso operaio sfruttato e che i concorrent­i sleali (di forza-lavoro) sono in casa nostra. E non è detto che lo sfruttato sia cinese: quanto prende il fattorino del corriere che ci consegna la borsa Armani quando la compriamo sul sito del venditore?

Nel sistema piramidale del capitale ogni nodo della filiera è truccato, a garanzia del padrone e dei padroni politici che gli reggono il moccolo. Basta non fare nessuna legge e ignorare l’articolo 36 della Costituzio­ne: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzio­ne proporzion­ata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficient­e ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ma davvero?

Marx lo dice così: “La grandezza dell’accumulazi­one è la variabile indipenden­te, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa”, brutale e chiarissim­o.

LAVORO E VALORE Le teorie del grande economista tedesco spiegano perfettame­nte le pratiche odierne della produzione del lusso: come le sacche pagate al produttore 90 euro e rivendute nei negozi a 1.800

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 ?? ANSA FOTO ?? Magia e realtà Vetrine di un negozio di lusso: la differenza di trattament­o tra i lavoratori e i prodotti venduti nelle boutique
ANSA FOTO Magia e realtà Vetrine di un negozio di lusso: la differenza di trattament­o tra i lavoratori e i prodotti venduti nelle boutique
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