Che scemi i nazisti: buttano giù i monumenti sbagliati
Riscoperto lo scrittore ceco perseguitato dai comunisti e sopravvissuto alla Shoah “SUL TETTO C’È MENDELSSOHN” La satira di Weil sul Reich nella Praga occupata: dall’ossessione per le statue di artisti ebrei alle porcellane rubate per le madri tedesche
Una statua. Sulla Casa tedesca delle Arti. Ma non una effigie qualsiasi: bensì, quella di Felix Mendelssohn. Un affronto per i nazisti nella Praga occupata, tanto più che l’immagine del compositore viene notata da Reinhard Heydrich, generale delle SS, responsabile di questa nuova “Regione” del Reich che Berlino chiama “Protettorato di Boemia e Moravia”. Com’è possibile, che schifezza è mai questa, com’era potuto accadere che il gerarca avesse tenuto il suo discorso in un edificio sul cui tetto svetta quella statua nauseabonda? Una simile vergogna, una simile umiliazione… perché nessuno ha pensato d’ispezionare l’edificio prima che venisse consacrato all’arte tedesca? Non è offesa tollerabile per colui che ha l’incarico di costruire e applicare la “soluzione finale”, il genocidio degli ebrei: quella statua deve essere rimossa, quella musica deve essere cancellata, così come si è fatto con musicisti del calibro di Bela Bartok.
INIZIA COSÌ IL ROMANZO di Jiri Weil (1900-1959), scrittore ceco di origine ebraica – sopravvissuto in modo rocambolesco alla Shoah –, la cui opera postuma Sul tetto c’è Mendelssohn (1960) è stata pubblicata qualche mese fa in Italia da Einaudi. Con un incipit di questo tenore, con ordini ringhiati in sequenza gerarchica – sbattere di tacchi e nessuna obiezione –, la mente torna alle stravaganze sanguinarie e derelitte di un nazismo grottesco raccontato al cinema da film come Jojo Rabbit, diretto da Taika Waititi, in cui il sorriso è bagnato perché in mezzo alle labbra ci finiscono, inevitabili, le lacrime.
Nel libro di Weil, la farsa – all’inizio la statua di Mendelssohn resta al suo posto e viene invece abbattuta quella del teutonico doc Wagner – è alternata a eventi drammatici, in un gioco di specchi per cui accanto agli ebrei fatti salire sui carri piombati c’è la storia di un’altra statua, quella della Giustizia: un “articolo” fastidioso per i nazisti, tanto che, arrivata nel magazzino della Gestapo tra la merce rubata dalle case dei deportati, viene ceduta a un antiquario compiacente per qualche spicciolo; ma la Giustizia è tanto bendata quanto imprevedibile, e misteriosamente ricomparirà nel magazzino dei tedeschi.
Il romanzo è costruito come una storia corale che ricorda una tradizione narrativa: si potrebbero citare, giusto per menzionare alcune “riscoperte”, Stalingrado e Vita e destino di Vasilij Grossman, anche se non c’è nell’opera di Weil quel tipo di epica russa, semmai mitteleuropea. In questa trama è assente un solo protagonista, un trascinatore che conduca la narrazione; ci sono piuttosto diversi personaggi, le cui vicende si accavallano avendo un comune denominatore: la vita a Praga sotto gli sterminatori di un popolo a cui hanno appuntato sul petto la stella di David come segno di inferiorità. C’è la peripezia tragicomica degli operai chiamati dai nazisti a togliere la statua, il dramma dell’anziano ebreo che sente di aver tradito per sempre il suo popolo collaborando all’apertura di un museo che dovrebbe raccontare alle future generazioni tedesche usi e costumi degli ebrei ormai spariti dal mondo immaginato da Hitler, ci sono gli attori della Resistenza con l’“operazione Anthropoid”, mirata a uccidere proprio Heydrich nelle strade di Praga. Una città in cui in ogni angolo, in ogni ufficio, in ogni posto di polizia, si trova il prototipo del male: nazisti che ammazzano senza scomporsi, ma trovano anche il tempo di ricercare porcellane di Meissen da spedire alle mamme in Germania.
Tutto questo viene raccontato con lo stile di Weil, una scrittura che, per richiamare uno dei suoi sostenitori più blasonati, Philip Roth, ha nella sobrietà la capacità di fotografare sentimenti, drammi, la degenerazione assoluta dei nazisti. La macchina della ferocia cercherà di stritolare anche due sorelline, nascoste da una famiglia e protette da un ufficiale della Resistenza: al loro inaspettato coraggio, vista l’età, sono dedicate le ultime pagine del romanzo. Weil appare dunque un cronista di quell’orrore che lui stesso ha conosciuto, prima braccato dalle SS, poi dalla dittatura stalinista.
Commedia e tragedia Quest’opera corale alterna risate e lacrime, l’oscenità grottesca delle SS e i sensi di colpa delle vittime
OGGI VERIFICHIAMO che l’antisemitismo attendeva solo la scusa per riproporsi prepotente a livello mondiale; la pubblicazione di Sul tetto c’è Mendelssohn appare dunque necessaria perché, conclusa l’ecatombe di un popolo costretto a capo chino verso le camere a gas, resta la consapevolezza citata dall’autore, un auspicio che ciò che è stato non sarà mai più: “Ci sono molti modi per lottare, e il più sicuro è farlo con un’arma in mano”.