.DEMOCRAZIA REALE. .TRA BUIO E CECITÀ.
POTERI OCCULTI I luoghi confidenziali e strategici delle élite, che spesso sono in combutta fra loro e a cui si accede per cooptazione, condizionano i tre settori del dominio: politica, finanza e ideologia
Con l’espressione “promesse non mantenute” Norberto Bobbio ha indicato alcune inadeguatezze o contraddizioni della “democrazia reale” rispetto alla “democrazia ideale”, cioè alle virtù politiche da cui essa sarebbe lecito attendersi che si circondasse (Bobbio): la rivincita degli interessi particolari, cioè egoistici, sulle visioni politiche della società nel suo insieme; gli “spazi limitati”, impermeabili alla democrazia, in cui tuttavia si esercita potere; il potere invisibile; l’individuo non educato alla cittadinanza; il governo dei tecnici unito alla crescita degli apparati burocratici; lo scarso rendimento o inefficienza rispetto alle decisioni di governo.
Tra le “promesse” contraddette dall’esperienza o dalla “rozza materia” c’è la “persistenza delle oligarchie”. L’espressione “promesse non mantenute” è efficace, ma può essere fuorviante in quanto personificazione di qualcosa che non è un “essere” che c’è, promette, sfugge, si nasconde e inganna gli esseri umani; quando, invece, è un valore che è (o non è) integralmente incarnato da coloro che alla democrazia fanno riferimento. Se, la democrazia, non la vediamo o la vediamo appannata, il difetto non è nella democrazia ma nei suoi difetti. Più precisamente, il difetto viene non dalla democrazia ma dalle prepotenze dei suoi nemici e dalle insufficienze dei suoi amici. A ben vedere, tutte le promesse non mantenute confluiscono in questo duplice fallimento: i detentori di poteri si sottraggono allo sguardo di chi li subisce e questi non sono in grado di penetrare questa sottrazione. Gli spazi limitati sono tali in quanto nascondono i poteri che vi si celano, interessi particolari si travestono da generali. Gli individui ineducati alla cittadinanza non vedono oltre il cerchio del proprio egoismo. La tecnica e la burocrazia si celano dietro la loro pretesa neutralità. L’inefficienza è, a sua volta, strumentale al potere che ne fa mostra per invocare sempre più potere. Le oligarchie possono “persistere” tanto meglio quanto meno sono esposte alla pubblicità, tanto più quanto si nascondono nel segreto, oppure tanto più alimentano il confuso sentimento di poteri che esistono, sono potenti, ma sono conoscibili solo da se stessi, rispetto ai quali i singoli individui sono, per così dire, “spiazzati”. Tutti questi limiti o degenerazioni della democrazia possono dunque riassumersi in queste due parole simmetriche: oscurità e cecità.
Dire oscurità significa occultamento o, peggio ancora, travisamento. La trasparenza dei luoghi del potere è condizione della democrazia. I segreti di Stato sono prerogative dell’autocrazia. Ma i luoghi oscuri sono tanti, più di quelli che si vedono precisamente perché sono oscuri, non necessariamente coperti dal segreto stretto come accade in certi luoghi delle massonerie d’ogni genere, nei luoghi di coordinamento e di decisione delle organizzazioni criminali. Sono oscuri, se non segreti nel senso giuridico, anche i luoghi confidenziali e strategici delle élite, spesso in combutta, che condizionano i tre settori del dominio, la politica, la finanza e l’ideologia. A questi luoghi si accede non per concorso ma per cooptazione e fidelizzazione. Pur privi di potere formale, essi influiscono su quella che un tempo era la sovranità degli Stati: la Mont Pélerin Society, cui si deve in grande misura la svolta neoliberista del mondo occidentale (Gallino, 2011), il club Bilderberg, la Commissione trilaterale o il Gruppo dei trenta, tutte aggregazioni di potere che riuniscono uomini della politica, della finanza, studiosi e giornalisti capaci di orientare le decisioni dei governi e le opinioni pubbliche dei Paesi appartenenti al mondo globalizzato. Esse hanno finora cospirato (etimologicamente: respirato insieme) nel senso della libertà di mercato e della libera circolazione della finanza e, perfino, della riforma delle istituzioni politiche “troppo democratiche”. Così il famoso memorandum degli “analisti” della banca d’affari JP Morgan (23 maggio 2013) che ha almeno il pregio della sfrontatezza (mentre talora si avanzano proposte del medesimo segno come semplici tecniche costituzionali efficientistiche): “I sistemi politici della periferia meridionale dell’europa sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quella esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori [...], licenza di protestare se vengono proposte modifiche sgradite dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”. (...)
All’oscurità del potere corrisponde la cecità delle masse che ne sono destinatarie o vittime. La distanza può essere colmata soltanto potenziando le conoscenze, in una rincorsa che tuttavia sempre deve rinnovarsi, in un mondo accelerato da un lato e ritardato dall’altro. Le conoscenze a disposizione delle persone comuni sono enormemente sproporzionate rispetto a quelle dei depositari dei diversi e numerosi poteri. La vita delle masse è condizionata da questi ultimi, tanto più che le conoscenze, i cosiddetti saperi, sono sempre più specialistici, mentre la democrazia dovrebbe potersi alimentare su una conoscenza universalistica di tipo integralmente umanistico. Tuttavia, la diffusione delle conoscenze e della cultura è l’unica via per contrastare la massificazione e la perdita di autonomia delle società odierne. La scuola ne è lo strumento. Non che nelle società classiste non esistano conoscenze e culture, ma esse sono distribuite diversamente dall’alto al basso della stratificazione. È ben nota la lezione di un celebre pedagogo che si è speso a favore degli umili, don Lorenzo Milani: comanda chi conosce più parole, cioè più cose ch’egli sa nominare. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all’argomento migliore, ma alla persona più abile con le parole, come al tempo dei sofisti che allenavano i propri allievi a sostenere nei loro “discorsi duplici”(i dissòi logoi) tanto una tesi quanto quella contraria, con uguale efficacia. La democrazia esige dunque una certa uguaglianza, per così dire, nella distribuzione delle parole, cioè nelle conoscenze veritiere che si è capaci di versare nel grande calderone del discorso pubblico. “È solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno” (Lettera a una professoressa, 1967). Ecco perché una scuola egualitaria e aperta a tutti è condizione di democrazia. (...)