“A Sanremo non sarei nemmeno dovuto andare Ma alla fine ‘Tuta Gold’ ha surclassato ‘Soldi’”
Amadeus se ne va, Mahmood resta. Almeno nelle intenzioni. “Al Festival parteciperei anche con altri direttori artistici: la prima volta con Baglioni mi ha portato fortuna”. Pure quest’anno, a dispetto del sesto posto, il giovanotto ha fatto tombola. Tuta gold ha invaso le radio e (in una carriera da oltre 3 miliardi di streaming) si è guadagnata da sola 160 milioni di ascolti online, sbancando le classifiche globali. “Chiedevo al mio staff: è tutto vero? Abbiamo spodestato Soldi, non è più l’ultimo bis dei concerti”. E dire che il nuovo super-hit si era concretizzato sul filo di lana per concorrere, dopo infruttuosi tentativi di innestare un ritornello assassino sullo chassis delle strofe. “A Sanremo non sarei dovuto andare, avevo una ballata che tengo tuttora nel cassetto, però dopo Brividi non volevo ripetermi”, confida.
“Gli amici mi sfottono: ‘All’ariston fai sempre bene, il problema è il resto dell’anno’”. Una boutade: la star del Gratosoglio è in tour continentale sold-out partito dal Lussemburgo e passato per l’olympia, mentre a Londra in mille sono rimasti fuori. L’altroieri Alessandro è salito sul palco leggendario del Paradiso di Amsterdam, tempio profano (un’ex chiesa dagli interni industrial-liberty) che nei decenni ha ospitato Stones, Pink Floyd, Nirvana, Amy Winehouse. Anche in Olanda la data è stata onorata da mahmoodiani d’esportazione, molti i residenti ben disposti a svociarsi. Il Nostro ha dispensato un set coerente con l’intimità da club: molto new-techno-soul (il fil rouge è l’album Nei letti degli altri) e un filo meno di groove: che tornerà buono per il giro autunnale nei palazzetti (dal 21 ottobre: due Assago, Firenze, Roma e Napoli) dove promette più coreografie, momenti dance e minaccia di portare in scena “gli elefanti”. In mezzo, un’estate live nelle kermesse nazionali.
Nel frullatore, continua a scrivere: “devo fare di più”, spiega, memore dell’insoddisfazione dopo aver messo mano a un Ep in italiano e in inglese, con tanto di trasferta a Los Angeles. “Non era riuscito abbastanza figo”, ammette, e giù nella pattumiera. Severo e chissà se giusto, certo meglio che agli esordi, “quando i miei musicisti volevano smettere di lavorare con me e i discografici mi usavano solo come autore”. Età, quella, di pressioni. “Solo la gavetta può salvarti: con un successo a 19 anni per me sarebbero stati cazzi”. E se certi giovani idoli gettano la spugna, altri, vedi Ghali, invitano i colleghi a esporsi sui temi critici, senza silenzi di convenienza. Per Mahmood “sono tante le questioni su cui si può essere d’aiuto, non giudico chi tace, tutto può essere manifestato in molti modi diversi. Come sia, il potere non imponga protocolli per censurare gli artisti”. Nel frattempo si gode l’europa: “Due anni dopo ho la sensazione che mi aspettassero”.
Gli ultrafan lo sommergono di regali. Occhio a quel peluche raro di un Pokémon: sua sorella glielo aveva preso a Tokyo. “In Lussemburgo qualcun altro me lo ha donato, mi sono ritrovato un doppione, la cosa è finita sui social e si è sfiorato il dramma”, ride.