CHE FUTURO “PLURALE” BIENNALE
A Venezia è stata inaugurata l’esposizione Polemiche, accuse, identità
“In questo territorio di miti e resistenza si muove l’arte indigena contemporanea: un’arte che si nutre della voce dei nostri antenati”. Per la Biennale del brasiliano Adriano Pedrosa, è quasi un manifesto la scritta su un acrilico del peruviano Rember Yahuarcani, esposto insieme agli arazzi cosmogonici del padre Santiago in una magnifica sala dedicata all’arte dell’amazzonia. Mai prima si erano visti così tanti artisti nuovi e “marginali”, di una marginalità non sociale o economica, ma declinata sui binari dell’identità etnica e di genere.
“Stranieri ovunque”: i neon, in mille lingue, luccicano sopra l’acqua delle Gaggiandre all’arsenale. Ma quello slogan, coniato vent’anni fa dal collettivo Claire Fontaine, metteva in discussione i principi fondanti dello sfruttamento capitalistico, il meccanismo della paura dell’altro come arma del potere. Oggi il discorso si è tutto spostato sulla dinamica de-coloniale e sulla rivendicazione dei diritti LGBTQ+. Gli Occidentali bianchi sono ammessi solo come queer (e con misura: l’arcobaleno del padiglione Usa è di un artista nativo), o per cause belliche (Polonia, Ucraina e Austria parlano di rifugiati), per il resto scompaiono anche dai Padiglioni dei loro Paesi: la Francia è rappresentata da un martinicano, la Spagna da una peruviana, l’australia da alberi genealogici di aborigeni defunti, l’inghilterra da un artista che aveva corso per il Ghana (i video sublimi di John Akomfrah), la Germania da una israeliana che compensa in parte la chiusura del padiglione dello Stato ebraico, che ancora ieri ha suscitato proteste e agitazioni. Un paio di Paesi cambiano financo il nome sul Padiglione: la Danimarca in omaggio agli Inuit della Groenlandia, il Brasile agli indigeni Tupinambá.
A parlare, qui, sono gli “stranieri” rispetto a “noi”: indigeni, migranti, queer, sciamani... Tutti rivendicano uno spazio per le loro tradizioni, per le loro libertà conculcate: ecco il fiorire di suoni naturali (in spazi “immersivi” come quelli del Sudafrica o delle Filippine), il motivo del cancello coloniale (le enclosure su un edenico stato di natura), e poi gli arazzi, le fibre, i batik, i tessuti d’ogni foggia – commuovono oggidì i metaforici rammendi sui tessuti della palestinese Dana Awartani.
È una Biennale perfetta per le scuole, per far vedere ai giovani cos’è il blu di Samarcanda, l’indaco di Pánama, o il colore dei fichi di Bengasi, per mostrare sulle piantine le rotte dei migranti (i video strazianti di Bouchra Khalili), per dare un’idea strutturata della diversità culturale del pianeta.
E PERÒ. Troppe volte ci si chiede quante di queste voci “straniere” vengano da artisti in fuga che vivono e lavorano da decenni nei loro studi di Londra, di Vienna o di New York. Troppe volte l’occidentale vede compiaciuto che gli “stranieri” strutturano il discorso sui “nostri” miti – la messicana queer Toranzo Jaeger elabora Saffo, Omar Mismar fa splendidi mosaici su Ercole (e il padiglione libanese è una rilettura femminista del mito di Europa), il sullodato martinicano Julien Creuzet ricama su Nettuno, l’egiziano Wael Shawky (a Palazzo Grimani) fa rivivere i miti di Pompei, lo stesso Akomfrah si ispira ai Cantos di Ezra Pound… E al Padiglione Centrale tutta la pittura astratta e i ritratti del Ventesimo secolo dal “Sud del mondo” (meritoria antologia a cura di Pedrosa), non mostra come l’arte contemporanea dal Marocco al Brasile all’indonesia sia dipesa da Gleizes, Brancusi, Giacometti, Picasso, declinando i paradigmi europei con un gradevole tocco etno?
Per dirla chiara: è etico, per “loro”, esporre oggi nel tempio del mercato dell’arte occidentale? Se lo chiede il padiglione nigeriano, che accusa senza mezzi termini le razzie inglesi del 1897; la peruviana Sandra Gamarra Heshiki non fa sconti al “razzismo illustrato”, alle nostre “maschere meticce”; i fenomenali lavoratori del Centro d’arte delle Piantagioni del Congo problematizzano la loro presenza nel Padiglione olandese, che serve a denunciare – e smantellare – le monocolture delle multinazionali, la piaga dell’olio di palma, lo spolpamento del sottosuolo africano. In questa dinamica di sensi di colpa e di tentativi di embed anche i perdenti, l’arte diventa un mezzo politico, insegue la sua funzione storica rimanendone talora schiacciata, nell’attesa che rivinca Trump, che Orbán faccia scuola a Bruxelles, che Gaza venga rasa al suolo e che le Sette Sorelle raccattino terre rare e idrocarburi là dove essi stanno.
Diversa è la Cina, che zitta zitta ricerca la propria “eredità” nella chiave dell’“unione armonica dei popoli”, e giunge ad appropriarsi delle tavole dell’atlante Mnemosyne di Aby Warburg per includervi i giardini, gli uccelli, le architetture del proprio passato. Che sia piuttosto quello, il futuro “plurale” che ci aspetta?
I padiglioni A parlare sono gli “stranieri”: indigeni, migranti, queer, sciamani... Tutti qui rivendicano uno spazio per le loro tradizioni, per le loro libertà