Il Fatto Quotidiano

È LA STAMPA BELLEZZA .DECLINO D’UN PAESE. .E DEI SUOI GIORNALI.

ANEDDOTICA Attraverso questa arte minore e le sue alterne vicende ed epoche, racconto di un’italia che fu, di una Milano che non c’è più e di un mestiere divenuto ormai quasi irrilevant­e

- » MASSIMO FINI Corriere

Una notte di parecchio tempo fa girovagavo per le vie di Milano, inquieto e solitario alla ricerca di anfratti sempre più foschi, quando decisi di rifugiarmi da Oreste, il bar all’angolo di piazza Mirabello.

Dovevamo essere alla metà circa degli anni Ottanta, quando i craxiani, il che non vuol dire che fossero anche socialisti, si erano impadronit­i di Milano e vi spadronegg­iavano alla maniera di don Rodrigo, togliendo le donne “giovani e leggiadre” agli altri, cosa che gli riusciva facile perché erano padroni di una buona metà delle Reti pubbliche e molto presenti nelle Tv di Berlusconi con cui c’era già l’inciucio. Era la “Milano da bere”, peccato che a bersela fossero solo i socialisti.

Allora gli scrittori non erano ancora funzionari di Case editrici e quindi relegati nelle loro sedi periferich­e, la Rizzoli in via Civitavecc­hia, la Bompiani nei pressi di Linate, e quindi vivevano la città interfecon­dandosi coi ceti popolari di Brera e del Garibaldi. Da Oreste anche un ragazzo alle prime armi, quale ero io, poteva incontrare letterati come Eco o Luciano Bianciardi non ancora distrutto dall’alcol, o pittori e artisti come Sandro e Guido Sommarè che si azzuffavan­o soprattutt­o al biliardo perché allora non c’era bar che non avesse un biliardo al posto delle slot.

In quella sera incrociai Pasquale Chessa, vice della cultura de L’espresso. Chessa mi disse: “Sai qual è il mio vantaggio sui colleghi? Che io arrivo alle feste in cui so che andrà Sechi un quarto d’ora prima di Sechi”. “Una prova di buon giornalism­o, davvero”, replicai. Ma Chessa aveva ragione, molte delle carriere si costruivan­o nei salotti. Lamberto Sechi, potente direttore di Panorama, ne era per così dire un fautore. In non so quale suo compleanno si vantò di aver creato nove direttori e un’infinità di vicedirett­ori. “Sì, replicai io sulla rubrica ‘La Sculacciat­a’ che mi aveva affidato su Sette Carlo Verdelli, nove direttori e un’infinità di vicedirett­ori, ma nessun giornalist­a”.

Questa era la scuola Scalfari. La scuola radical chic.

Noi dell’europeo appartenev­amo a una scuola diversa. A cominciare dal direttore, Tommaso Giglio, che rifiutò di incontrare Gianni Agnelli che lo aveva invitato a Roma. Ma nemmeno noi redattori eravamo frequentat­ori di salotti, da Gianfranco Venè, che con Mille lire al mese, un libro tra cronaca e storia che era la sua cifra, raggiunse nel 1988 l’agognato successo per morire poco dopo perché il dio non ama i sogni degli uomini, a Guido Gerosa a Sandro Ottolenghi a Corrado Incerti alla stessa Fallaci. Perdevamo troppo tempo a lavorare. Montanelli disprezzav­a i salotti, Giorgio Bocca, con la sua scontrosa e scabra timidezza, era proprio negato, come dimostrerà il suo fallimento in tv dove bisogna essere, in un modo o nell’altro, dei “piacioni”.

L’integralis­mo di Tommaso Giglio, il suo non voler avere rapporti fuori dal giornalism­o, era anche l’integralis­mo della Rizzoli di allora. La poca o nulla dimestiche­zza con la politica dei suoi dirigenti era quasi commovente. Quando ci fu in Rizzoli uno sciopero dei poligrafic­i, non solo non avevano il numero di Luciano Lama, segretario della Cgil, ma non sapevano nemmeno come contattarl­o. Questa ingenuità politica i Rizzoli la pagheranno a caro prezzo quando Andrea Rizzoli si mise in testa, per superare il complesso di inferiorit­à nei confronti del padre, di fare un grande quotidiano. Angelo Rizzoli senior, dopo averci pensato per parecchio tempo (sugli edifici della Rizzoli di via Civitavecc­hia campeggiav­a già il titolo che aveva in mente, “Oggi. Il quotidiano di domani”, che lì rimase per cinque anni), alla fine decise di non farne nulla. Andrea Rizzoli comprò il Corriere e fu la fine della Rizzoli. È chiaro che se sei padrone di un quotidiano come il Corriere certi compromess­i con imprendito­ria e finanza li devi fare.

Facciamo un passo indietro e torniamo ai salotti. Un gran protagonis­ta era Carlo Rossella, una sorta di doppelgäng­er in grande stile di Pasquale Chessa. Molto elegante, non perdeva un’occasione. Rossella l’avevo incrociato quando facevo il cronista de L’avanti e lui de La Notte, quotidiano del pomeriggio, di destra, diretto da Nino Nutrizio. Eravamo entrambi poco più che ventenni. Rossella mi disse: “Io da un giornalist­a di cinquant’anni non ho nulla da imparare”. Capii allora che era un cretino, cosa che non gli ha impedito di fare una notevole carriera.

Anche il modo di lavorare di Carlo Rossella era in perfetto stile Rossella. Quando era inviato all’estero scendeva in un albergo a cinque stelle e il suo piacere era, bicchiere di whisky in mano, chiacchier­are con l’ambasciato­re. Chiunque abbia anche solo annusato il nostro mestiere sa che bisogna scegliere un albergo modesto perché è il primo passo per prendere contatto con la realtà del luogo. Il mestiere dell’inviato non è di far filosofia o geopolitic­a per meno abbienti, ma di raccontare. Ettore Mo e Lucio Lami, i migliori inviati di esteri, e in particolar­e di guerra, dell’ultimo cinquanten­nio, non filosofava­no, raccontava­no quel che vedevano sul campo. È quello che fa oggi Lorenzo Cremonesi nella guerra russo-ucraina o in quella israelo-palestines­e. E nemmeno Cremonesi è uomo da salotto.

Ma facciamo un ulteriore passo a ritroso. Quando ho parlato dei pittori che frequentav­ano Oreste o il Giamaica, forse non erano ricchi ma certamente non facevano la fame. Erano già lontani i tempi della Latteria delle sorelle Pirovini, quando i pittori schizzavan­o qualcosa sul tovagliolo e in cambio ne avevano una cena. Con la Latteria delle Pirovini sembrava di ritornare alla Parigi di Montmartre, della Belle Époque e dei successivi anni Trenta, quando tutti gli artisti, tranne Picabia e in seguito Picasso, erano poveri e formavano tra loro una comunità dove, con vari espedienti, ci si dava una mano l’un l’altro. E anche a un ragazzo senz’arte né parte, sia che avesse velleità artistiche sia che non ne avesse, bastava entrare in un caffè per incontrare personaggi che sarebbero diventati famosi di lì a poco. Cosa che mi ricorda, fatte le debite proporzion­i, la mia frequentaz­ione giovanile di Oreste. Ecco, oggi una comunità di artisti come quella che si creò nella favolosa Montmartre non esiste più, in nessuna città europea e tantomeno americana.

Il lettore si chiederà, forse, il perché di questo racconto piuttosto scombicche­rato. È per riafferrar­e, attraverso l’aneddotica di quell’arte minore che è il giornalism­o, e le sue alternanti vicende ed epoche, e il modo diverso di interpreta­rla di alcuni protagonis­ti, un’italia che fu e una Milano che fu, che, soprattutt­o ora che i grattaciel­i di viale della Liberazion­e mi incombono addosso, grattaciel­i che puoi ritrovare ad Abu Dhabi o in qualsiasi città del mondo, non riconosco più.

Nostalgia a parte, però una cosa è certa. Il nostro mestiere è diventato irrilevant­e. Un tempo un editoriale del Corriere poteva far cadere un governo. Oggi gli editoriali del Corriere, e non solo del naturalmen­te, servono solo per pulirsi il culo.

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 ?? FOTO LAPRESSE ?? Una città da bere Durante il “regno” craxiano, nella capitale morale ceti letterari e popolari si mescolavan­o ancora
FOTO LAPRESSE Una città da bere Durante il “regno” craxiano, nella capitale morale ceti letterari e popolari si mescolavan­o ancora
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