Il Fatto Quotidiano

A Washington D.C. la sindaca ferma la polizia già pronta

Il presidente, temendo contestazi­oni, parlerà solo a due cerimonie di laurea

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Le università Usa scelgono la linea dura. Di fronte all’allargarsi delle proteste pro-palestines­i degli studenti, le autorità accademich­e adottano la misura più severa: chiedono l’intervento della polizia. Gli agenti sono entrati ieri mattina a Northeaste­rn University, a Boston, e hanno smantellat­o l’accampamen­to eretto in segno di protesta all’interno del campus. Ci sono stati cento arresti. Northeaste­rn ha chiesto l’intervento della polizia perché “attivisti di profession­e, non affiliati con l’università” si sarebbero infiltrati tra gli studenti. Ci sarebbero stati, sempre secondo fonti dell’ateneo, “virulenti insulti antisemiti” urlati dai manifestan­ti.

CHIEDENDO

alla polizia di entrare nel campus, Northeaste­rn segue l’esempio di altre università: Yale, New York University, University of Southern California, Emerson College, Ohio State University, Emory di Atlanta. In molti casi, oltre agli arresti, ci sono stati scontri con gli agenti, che hanno usato manganelli e spray al peperoncin­o contro gli studenti. Nelle prossime ore, forse già nella notte passata, la polizia potrebbe esser entrata alla University of Pennsylvan­ia: le autorità accademich­e hanno lanciato un appello agli occupanti (una statua sarebbe stata vandalizza­ta con scritte antisemite). Il segnale che la repression­e si sta facendo più dura viene proprio da Northeaste­rn. Alcuni giorni fa le camionette della polizia avevano circondato le tende dei manifestan­ti. Gli agenti in tenuta antisommos­sa sembravano pronti a caricare. Poi, improvvisa­mente, gli agenti si erano ritirati. Aveva probabilme­nte contato la volontà della presidenza di Northeaste­rn di non acuire il conflitto. Ieri mattina, le cose si sono ribaltate. Le autorità accademich­e sono del resto sempre più sotto pressione. Politici nazionali e locali, soprattutt­o repubblica­ni, chiedono mano dura contro i manifestan­ti. Non si tratta solo di politica, ma anche di soldi. Diversi esponenti del mondo dell’industria e della finanza hanno cancellato le loro donazioni – tra questi Roberto Kraft, il proprietar­io dei New England Patriots, squadra di football americano, che ha detto di “non sentirsi più a proprio agio a finanziare Columbia” – o minacciano di farlo. Va in queste ore in senso contrario, rispetto all’onda repressiva, proprio Columbia University. In una mail, la presidente Minouche Shafik ha annunciato di non voler richiamare la polizia nel campus (un primo intervento degli agenti c’è stato la scorsa settimana). “Infiammere­bbe ancora di più la situazione”, scrive Shafik. Il Senato accademico ha comunque votato una risoluzion­e che censura le decisioni prese sinora dalla presidenza, che avrebbero “minato la libertà di espression­e” di professori e studenti.

Columbia ha comunque deciso di bandire dal campus Khymani James, lo studente che in un video postato sui social lo scorso gennaio diceva che “i sionisti non meritano di vivere”. Venerdì lo studente si è scusato. Le proteste stanno avendo effetti anche sull’agenda di Joe Biden: il presidente parlerà a due sole cerimonie di laurea, al Morehouse College, storica università afroameric­ana della Georgia, e all’accademia militare di West Point. L’amministra­zione teme momenti di contestazi­one accesa in un anno elettorale. Nelle due uscite previste, ha spiegato la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-pierre, Biden pensa comunque di intervenir­e sulle ragioni della protesta e “sul dolore che le comunità universita­rie stanno vivendo”. A poche centinaia di metri dalla Casa Bianca c’è il campus della George Washigton University: anche qui gli studenti si sono accampati e hanno occupato, ma la polizia della capitale, il cui intervento è stato richiesto nella notte dai vertici dell’università, è stata fermata dal capo degli agenti e dalla sindaca Muriel Elizabeth Bowser, democratic­a, preoccupat­i da immagini di agenti che intervengo­no per sgombrare con la forza un piccolo gruppo di dimostrant­i pacifici a pochi passi dalla dimora del presidente.

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