Il Fatto Quotidiano

Spread, quando Draghi negò lo scudo chiesto da Monti&c.

Nel suo libro l’ex premier critica il ruolo di Mr. Bce: “Deficit e tassi, scelte fatte per compiacere Berlino”

- » Carlo Di Foggia

Roma, sera del 21 giugno 2012, sede della Banca d’italia. Il premier Mario Monti e il viceminist­ro dell’economia Vittorio Grilli incontrano il governator­e Ignazio Visco per discutere un piano riservato in vista del decisivo Consiglio europeo della settimana successiva. La situazione è drammatica. A sei mesi dalla caduta di Berlusconi, la crisi finanziari­a non si placa nonostante la manovra “Salva Italia” di dicembre 2011. A Palazzo Koch c’è anche il presidente della Bce Mario Draghi: l’idea del governo italiano è che, oltre una certa soglia, la banca centrale intervenga sul mercato dei titoli di Stato per ridurre gli spread impazziti: quel giorno il differenzi­ale di rendimento tra i Btp italiani e i bund tedeschi tocca i 417 punti. Draghi, però, gela i presenti: è “molto negativo”, la proposta “non può funzionare”. Insomma, non avrà il suo appoggio.

Non è un retroscena di qualche blog complottis­ta, a svelare l’episodio inedito è lo stesso Monti in un passaggio di Demagonia, dove porta la politica delle illusioni (Solferino), in uscita domani. È un fatto noto che negli ultimi anni il professore bocconiano si è dato l’infausto compito di rivendicar­e di essere lui il vero Super Mario che ha salvato l’italia, ma è la prima volta che mette in fila i fatti con tanto di retroscena.

UN MESE DOPO IL NO rifilato a Monti e soci, Draghi a Londra pronuncia il famoso “faremo qualsiasi cosa serva”, whatever it takes, “per salvare l’euro”, che ha messo fine alla speculazio­ne sul debito italiano salvando la moneta unica. Una vulgata che Monti disconosce, affidando all’ex Bce il ruolo di esecutore, a volte riottoso, di decisioni politiche. Nei due capitoli dedicati alla vicenda, il nome di Draghi ricorre 36 volte in 50 pagine.

Nel 2011 la crisi dell’euro è al suo apice. Il terremoto dei subprime negli Usa ha messo fine alla stagione del denaro facile in Eurozona, colpendo prima Grecia e Irlanda, poi Portogallo e Spagna. La svolta avviene nell’autunno del 2010, quando Sarkozy e Merkel chiariscon­o, dalla spiaggia di Deauville, che gli Stati Ue possono fallire coinvolgen­do il settore privato. L’annuncio scatena un deflusso di capitali dai Paesi periferici che nel decennio post euro avevano accumulato pesanti deficit con l’estero che il mercato non voleva più finanziare: l’italia viene colpita a maggio 2011, quando la sua economia ha un saldo fra crediti e debiti con l’estero negativo per 355 miliardi (oggi è positivo per 120). Il 9 novembre, dopo mesi di passione, Napolitano convoca Monti a Roma: lo spread sfiora i 574 punti.

La cura lacrime e sangue varata un mese dopo fu venduta come una misura inevitabil­e per arginare il debito pubblico. Monti lo fa tutt’ora. Nel libro parla del debito in chiave moralistic­a, un’ingiustizi­a intergener­azionale. In realtà la cura era il classico riallineam­ento dei conti con l’estero comprimend­o i salari, come ammise lui stesso nel 2013 alla Cnn (“Stiamo in effetti distruggen­do la domanda interna...”).

Come noto, la cura ha fatto esplodere il rapporto debito/pil a causa del crollo del secondo. Monti dà la colpa non alla ricetta, l’austerità - di cui pure disconosce la paternità, addossando­la a Berlusconi ma alla dose eccessiva somministr­ata, dovuta alla decisione imposta da Draghi di anticipare di un anno, al 2013, il pareggio di bilancio previsto per tutti i Paesi dell’euro nel 2014. Il diktat era contenuto nella famosa lettera al governo italiano del 5 agosto 2011 firmata dall’allora governator­e di Bankitalia e dal presidente Bce Jean-claude Trichet (di cui prenderà il posto a ottobre). Una richiesta insensata, accettata “per disperazio­ne da Berlusconi”, che così, scrive Monti, firma la sua condanna a morte politica. La scelta fu subìta anche dai presidenti di Commission­e e Consiglio Ue, José Barroso e Herman Van Rompuy, “probabilme­nte anche per non apparire dissonanti dalla Bce che così aveva deciso, benché al di fuori dei suoi poteri”. Nell’ottobre 2011, l’allora presidente della Bocconi ha l’occasione di esprimere ai due banchieri centrali le sue “riserve per quell’intervento inedito” a margine del passaggio di consegne a Francofort­e. Trichet gli risponde che “si erano sentiti scoperti politicame­nte nel protrarre interventi di sostegno ai Paesi sotto attacco sui mercati senza un chiaro mandato a farlo”.

Secondo Monti, è stato il diktat di Draghi a causare gli effetti recessivi più pesanti, che lui tentò invece di evitare. Nel suo primo viaggio a Bruxelles da premier chiede infatti a Van Rompuy e Barroso “di liberare l’italia da quell’impegno straordina­rio”. La risposta lo gela: “Dato che con la sua autorevole­zza la Bce ha indicato quell’obiettivo per voi italiani, sarebbe disastroso tornare indietro...”. Monti spiega di non essersene lamentato in pubblico per non danneggiar­e l’italia, ma di essere ben consapevol­e delle conseguenz­e. Cosa provi

Non solo “whatever it takes” La lettera scritta con Trichet che affossò l’italia, il Fiscal compact recessivo, la riunione in Bankitalia del giugno 2012

oggi sentendo il Draghi keynesiano del “debito buono” che critica le politiche “prociclich­e” (cioè recessive) di allora è intuibile dalle sue parole. “Qualcuno contrappon­e la linea del governo Draghi, sensibile alle esigenze della crescita, a quella del governo Monti cultore perverso dell’austerità. Il quale ha però avuto in sorte di somministr­are agli italiani un pasto sgradevole che porta il suo nome, anche se cucinato da Draghi e Berlusconi”.

L’OSSESSIONE per l’anticipo del pareggio di bilancio nasconde forse un ragionamen­to tecnico. Dopo Deauville, una certa dose di austerità era scontata, non però la scelta di farla con lo spread alle stelle e il settore bancario non più in grado di finanziars­i a tassi sostenibil­i. Diluirla nel tempo ne avrebbe ridotto l’impatto recessivo. L’italia invece ha fatto due anni di stretta fiscale e monetaria, una roba da Paese emergente e anche illogica trovandosi all’interno dell’euro. In un documento del 2018, il Tesoro calcolò che quelle “frizioni finanziari­e” abbiano spinto l’impatto recessivo del “Salva Italia” fino a 300 miliardi in meno di Pil.

Perché, dunque, una scelta così autodistru­ttiva? Monti parla di “apprendist­ato teutonico di Draghi”, arrivato a Francofort­e bruciando il candidato dei tedeschi Axel Weber mentre l’italia era travolta dalla crisi, cosa “che lo portava ad assecondar­e le richieste di Berlino anziché arginarle, al punto da proporre quel severo pacchetto di regole contabili poi noto come Fiscal Compact”, che viene discusso al Consiglio Ue di dicembre 2011, il primo per entrambi. Monti dice di essere rimasto colpito “dai continui interventi del neo presidente Bce che chiedeva aggiustame­nti al testo in modo che risultasse più esplicito, più severo”.

Per lo stesso motivo, Draghi non appoggiò lo “scudo anti-spread” chiesto dall’italia e anticipato dal premier al presidente Usa Barack Obama, preoccupat­o per la crisi dell’euro, per poi discuterlo al G20 di

Los Cabos, in Messico, il 19 giugno 2012. Obama commette l’errore di presentarl­o a Merkel come “the italian paper”, irrigidend­o la Cancellier­a. Tre giorni dopo Draghi lo boccia nella riunione in Bankitalia: “Non se la sentiva di fare alcun passo che potesse portare a un irrigidime­nto della Germania”.

Per quel passo serviva, insomma, la copertura politica, che arriverà solo al Consiglio Ue del 29 giugno, che l’ex premier dipinge come un suo trionfo, quando Italia e Spagna piegano la Merkel, con la sponda del neopreside­nte francese François Hollande, ottenendo che i Paesi in regola potessero accedere ai sostegni finanziari senza dover firmare un memorandum con la Troika. Un mese dopo arriverà il “whatever it takes”, che Monti non considera la svolta decisiva, che arriva solo a settembre, quando vengono resi noti i dettagli delle operazioni straordina­rie di acquisto di titoli da parte della Bce: le “Omt” (poi mai utilizzate) che ricalcavan­o la proposta italiana bocciata tre mesi prima. È quello, suo dire, ad avviare la vera discesa dello spread: “Era lo scudo da noi tanto auspicato”. A conferma di questo ricorda che “tra luglio e agosto 2012 i rendimenti scesero pochissimo”, al punto che, quattro giorni dopo le parole di Draghi, la situazione era tale che discusse con Hollande della possibile uscita dell’italia dall’euro (lo leggete di fianco).

Dopo 14 anni, una ricostruzi­one di quegli eventi resta ancora attuale. Draghi è l’unico dei protagonis­ti di quella stagione che ambisca ancora a un ruolo di primo piano in Europa a capo della Commission­e o del Consiglio. Insomma, ad esserne uscito politicame­nte indenne. Che non vuol dire assolto.

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ANSA/LAPRESSE Austerità Monti, Draghi e un corteo a Bruxelles, a destra Valls con Hollande

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