Martin Wolf Diamoci una svegliata: gli apologeti del capitalismo si preoccupano di come salvarlo
Sgombriamo il campo a ogni equivoco: il “miglior giornalista finanziario del mondo” secondo il Washington post, cioè Martin Wolf che lavora al Financial Times, tempio del capitalismo globale, non pensa di abbattere il capitalismo. Anzi, se si guarda all’ultima parte di questo suo ponderoso lavoro, La crisi del capitalismo democratico la ricetta non fa che aggiornare - con molto impegno e diversi spunti interessanti - un’idea di “riforma del capitalismo” che esiste da quando esiste questo modo di produzione. Ci torneremo, ma Wolf, da buon agente dell’elite internazionale, ha scritto questo libro per avvertire dei rischi di ipotesi “rivoluzionarie”, o magari solo da ipotesi che inneggiano alla “decrescita” o, peggio, dal rischio dell’affermazione di un populismo “autoritario” e “nazionalista” che insidia stabilmente i paesi capitalistici.
Quel che rende interessante il libro è che, onestamente, l’autore indica nei guasti del capitalismo stesso l’affermazione e di tendenze definite, in modo semplicistico e generalizzante, “populistiche” o comunque di contestazione del sistema in essere. E questi guasti sono ben indicati nella mancanza di diffusione di “benessere ad ampie fasce delle nostre società”. “Dietro il successo del populismo di sinistra e di destra nei paesi a alto reddito ci sono soprattutto i fallimenti dell’economia”. Non si tratta di chiamare in causa fattori culturali o psicologici, ma cause di fondo: “È l’economia, stupido!” insomma, ripete il giornalista finanziario. Wolf è un sostenitore dell’economia di mercato e della democrazia liberale, ma non può nascondere le storture che almeno negli ultimi quindici anni, dalla crisi del 2007, hanno prodotto nuove “frustrazioni” e quindi una “rivolta contro le elites mondiali”. E questo è avvenuto per molteplici e intrecciate cause che costituiscono l’ampia analisi del libro. Il capitalismo della rendita e finanziario, il calo della produttività - non imputato a fantomatici “fannulloni” quanto a cambiamenti strutturali nell’innovazione tecnologia e nella struttura produttiva - i cambiamenti profondi dell’economia internazionale (la Cina che avanza) da cui deriva “lo svuotamento delle classi medie” e i processi di “deindustrializzazione” nel senso di meno occupati nell’industria. Ma ha inciso il “capitalismo truccato” gestito dai nuovi poteri della finanza globale, spesso manager ultra-pagati che non rendono conto a nessuno. Un’idea un po’ romantica di capitalismo finanziario “cattivo” contro un idealizzato “capitalismo democratico” che sarebbe l’eden da restaurare.
Per farlo si torna al New Deal e all’ “ingegneria sociale gradualistica” di Popper: “Riforme, non rivoluzione”. I punti di Roosvelt del 1941 vengono rielaborati in un programma che prevede: “1. Un tenore di vita in crescita, 2. Buoni posti di lavoro, 3. Uguaglianza e opportunità, 4. Sicurezza per chi ne ha bisogno, 5. Fine dei privilegi speciali per pochi”. Un programma di riforme moderate, ma spesso più incisivo (la corruzione ad esempio) di quelli di molte sinistra liberali. E comunque, un forte stimolo alla discussione.