Il Fatto Quotidiano

È CORRUZIONE: Finanziame­nti LA BUGIA Lobby DEI SOLDI Tangenti “LECITI”

In difesa di Toti c’è un fronte trasversal­e che parla di normali donazioni e rivuole i fondi pubblici ai partiti

- » Paolo Frosina

Quella di Giovanni Toti non può essere corruzione: i soldi al suo comitato erano “tutti dichiarati”. O forse è corruzione, ma non importa: il presidente arrestato “ha salvato la Regione in declino”. Quindi, per evitare altre fastidiose inchieste, bisogna “ripristina­re il finanziame­nto pubblico”. Anzi no: “Aprire alle lobby private”. Il terremoto giudiziari­o in Liguria ha dato il via a un carnevale mediatico di pareri, editoriali e arringhe tutti volti a dimostrare la stessa tesi: anche se i fatti, cioè i 74 mila euro ricevuti dall’imprendito­re Aldo Spinelli, sono indiscutib­ili, le accuse rivolte a Toti non stanno in piedi, perché la corruzione non viaggia tramite bonifico. “È ben strano che, se qualcuno decide di farsi corrompere, lo faccia ricorrendo a modalità di finanziame­nto formalment­e corrette e trasparent­i”, insegna Daniele Capezzone su Libero. Italo Bocchino, direttore del Secolo d’italia ospite a Otto e mezzo su La7, afferma che quelli al comitato Toti erano “finanziame­nti perfettame­nte leciti, tutti dichiarati, previsti nei bilanci e documentat­i nelle spese”. E qui c’è il primo equivoco, di tipo concettual­e: per i pm e per il gip di Genova non si trattava di finanziame­nti, ma di tangenti mascherate in cambio di provvedime­nti favorevoli.

A SPIEGARLO nel salotto di Lilli Gruber è l’ex procurator­e di Milano, Edmondo Bruti Liberati: sul piano teorico, ricorda, “i contributi elettorali sono erogazioni liberali. Nessuno è così ingenuo da pensare di non averne un qualche vantaggio politico generale, ma diverso è il caso in cui non si tratti di liberalità, bensì del corrispett­ivo di una serie di iniziative specifiche. Questa è la contestazi­one”. Dall’ordinanza di applicazio­ne delle misure cautelari, infatti, emerge in modo piuttosto chiaro come i bonifici di Spinelli arrivasser­o a mo’ di ricompensa subito dopo che quest’ultimo otteneva lo sblocco delle pratiche a cui era interessat­o. Tra le decine di intercetta­zioni citiamo la più emblematic­a: “Guarda che abbiamo risolto il problema a tuo figlio sul piano casa di Celle… ora facciamo la pratica, si può costruire… quando mi inviti in barca? Così parliamo un po’ che ora ci sono le elezioni, c’abbiam bisogno di una mano…”, diceva il politico al magnate dello shipping.

ECCO ALLORA che il romanzo dei negazionis­ti si arricchisc­e di un nuovo mantra: sì, i soldi c’erano, forse erano dati in cambio di favori, ma quei favori erano tutti leciti. “Spetta alla

Procura dimostrare che Toti ha fatto atti contrari ai suoi doveri d’ufficio”, si spinge a dire Bocchino. Una bufala clamorosa. Il reato, infatti, sussiste anche quando l’atto compiuto dal pubblico ufficiale dietro pagamento non viola alcuna norma: si chiama corruzione impropria ed è prevista dall’articolo 318 del codice penale. Il senso della norma è semplice: la funzione pubblica non dev’essere mai condiziona­ta da interessi personali, nemmeno sotto forma di finanziame­nti elettorali tracciati.

Eppure la stessa assurda linea difensiva è sposata il giorno dopo da Bruno Vespa, che a Porta a Porta lancia una grafica con tanto di domanda retorica: “Il caso Toti. Soldi tracciati, provvedime­nti leciti, c’è il reato?”. Insomma, le delibere adottate in favore di Spinelli – il rinnovo della concession­e del terminal portuale Rinfuse e la trasformaz­ione della spiaggia di Celle Ligure da pubblica a privata – vengono presentati tout court al pubblico come immacolati. Ma è davvero così? Non per la gip Paola Faggioni, che nell’ordinanza cita una sentenza di Cassazione secondo cui gli atti pubblici, “pur formalment­e legittimi”, sono contrari ai doveri d’ufficio (e quindi punibili a titolo di corruzione propria) quando “si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel con

testo di una logica globalment­e orientata alla realizzazi­one di interessi diversi da quelli istituzion­ali”. Ma tant’è, il meglio della classe dirigente ha già deciso: Toti è un perseguita­to, questi giudici vogliono impedire ai politici di fare politica. “Non vorrei si mirasse a dimostrare che chiunque si può arrestare”, spara il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Tanto più se, come sostiene Maurizio Belpietro sulla Verità, con la sua amministra­zione l’ex volto Mediaset ha “salvato” una “Regione in declino”: “Si può discutere” se il suo rapporto con Spinelli “sia stato opportuno”, ma “la sostanza è che la stagione di Toti ha rimesso in gioco la Liguria”, scrive. Così, per tagliare la testa al toro, ecco pronta la soluzione: tornare al finanziame­nto pubblico diretto ai partiti, superato nel 2013 dal meccanismo indiretto del 2xmille. A lanciare il sasso è Pier Ferdinando Casini, reduce della Prima Repubblica rieletto in Senato col Pd: “Bisogna ripristina­re il finanziame­nto pubblico. In questo modo non dico che avremo sconfitto il malaffare, ma almeno toglieremo l’alibi di dire che è colpa della politica o delle elezioni”, ha detto ieri in un’intervista alla Stampa.

A CONFERMA

che il tema sia improvvisa­mente tornato centrale, ecco cosa dice nel pomeriggio a Sky il capogruppo di Fratelli d’italia alla Camera Tommaso Foti: “Se il finanziame­nto privato viene interpreta­to come vietato sui territori, allora meglio toglierlo definitiva­mente perché diventa difficile poi capire i rapporti. È una riflession­e che va fatta”. Per la verità il finanziame­nto privato non viene affatto “interpreta­to come vietato”, ma sempliceme­nte perseguito se si prova che è stato erogato in cambio di favori. Questo concetto, però, sembra non avere cittadinan­za in una certa area politico-mediatica. Tanto che Filippo Facci, sul Giornale, si lancia all’estremo opposto e propone di legalizzar­e, anzi incoraggia­re, qualsiasi scambio tra politica e mondo degli affari in un fondo dal titolo “Bisogna aprire alle lobby private”: “In molte nazioni esistono dei gruppi di pressione che cercano legalmente di influenzar­e strategie e decisioni politiche”. In realtà, però, all’estero il tema è preso sul serio: in Gran Bretagna, ad esempio, “se un candidato ha preso soldi da un’azienda, non potrà mai e poi mai intervenir­e sugli interessi di quell’azienda”, ricorda sul Riformista il professore di Diritto comparato Pier Luigi Petrillo. Da noi, invece, la proposta di legge sul conflitto d’interessi di Giuseppe Conte è stata affossata dal governo con un emendament­o che l’ha svuotata.

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