Gaza, metà risorse idriche saltate
Più della metà delle circa 600 strutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza sono state danneggiate o distrutte nell’operazione militare avviata da Israele contro Hamas in risposta al massacro del 7 ottobre. Lo ha stimato ieri un’inchiesta della Bbc basata sul confronto di migliaia di immagini satellitari e su una lista di impianti fornita dalle autorità della Striscia. Almeno 320 impianti risultano fuori uso, tra cui i principali serbatoi e 4 dei 6 sistemi di trattamento delle acque reflue (gli altri due sono inattivi per mancanza di carburante, altra risorsa rara nella Striscia anche perché requisita da Hamas).
L’ACQUA POTABILE
è una risorsa limitata da sempre a Gaza. Il 90% viene da una falda acquifera costiera contaminata da acqua di mare e sversamenti abusivi, il restante da tre condotte israeliane chiuse nelle prime settimane di guerra e ora riaperte a flusso ridotto. Il palestinesi si affidavano per lo più a impianti di desalinizzazione fai da te. Ma oggi la quasi totalità dei 2,7 milioni di gazawi è sfollata e la produzione idrica è scesa al 5% dei livelli pre-guerra, secondo l’unicef. I palestinesi della Striscia vivono con 3 litri d’acqua al giorno (la media mondiale è 15), in parte attingendo alle taniche dei camion di aiuti, in parte a pozzi irregolari. Il 70% dell’acqua che i gazawi bevono è contaminata, dice l’unrwa.
La maggior parte dei siti fuori uso individuati dalla Bbc sono nel nord della Striscia o nell’area di Khan Younis. A Rafah, dove hanno trovato rifugio 1,5 milioni di persone, le infrastrutture risultavano intatte, ma le immagini satellitari usate dal network britannico risalgono ad aprile, prima che l’idf estendesse l’offensiva all’estremo sud. Tra le tende di fortuna, raccontano le ong, l’igiene manca come il cibo, le acque reflue si accumulano per strada e colera e tifo sono dietro l’angolo. Dal 6 maggio, 150 mila persone hanno lasciato Rafah per cercare rifugio altrove, secondo Tel Aviv.
La distruzione di infrastrutture vitali può costituire un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale, salvo fondate ragioni militari. Al Fatto l’idf ha circostanziato i raid su cinque grandi siti idrico-sanitari (i serbatoi di Bani Shuleila e Abasan Jadida, l’impianto di reflui di al-bureij, una stazione di desalinizzazione, un magazzino di ricambi gestito dall’unicef a Khan Younis), spiegando di averli colpiti durante combattimenti con gli islamisti: “Hamas sfrutta cinicamente, metodicamente e strategicamente le infrastrutture civili a fini terroristici”, scrivono le Forze israeliane. I casi rilevati, però, sono centinaia. Leila Sadat, ex consulente della Corte penale internazionale, ha spiegato alla Bbc che “non si può guardare il singolo attacco” ma che “eliminare più della metà dell’acqua e dei servizi igienici non intenzionalmente pare difficile”.