Il Fatto Quotidiano

C’È TROPPA GAZA SU TIKTOK PER QUESTO LO OSCURANO

- FRANCESCO SYLOS LABINI

Gli studenti di centinaia di università nel mondo occidental­e chiedono una sola cosa: la fine dello sterminio a Gaza. Le immagini che arrivano dalla Palestina passano con difficoltà nei media tradiziona­li, ma straripano nei social media ormai accessibil­i in tutto il mondo in tempo reale. Il vettore di questa diffusione è lo smartphone. Come spiega Juan Carlos De Martin nel suo bel libro Contro lo smartphone – Per una tecnologia più democratic­a (ADD editore), mai prima d’ora un’innovazion­e tecnologic­a aveva raggiunto una portata così vasta così velocement­e, diventando indispensa­bile per le attività quotidiane.

Oggi si conta che almeno metà della popolazion­e mondiale, 4 miliardi di persone, passi in media dalle 4 alle 5 ore al giorno utilizzand­o lo smartphone. Tre quarti del tempo sono dedicati ai social media come Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, Tiktok e Whatsapp. Soprattutt­o le giovani generazion­i, avendo quasi completame­nte abbandonat­o la carta stampata e i talk show televisivi, acquisisco­no la gran parte dell’informazio­ne proprio dai social media. Lo smartphone sta dunque svolgendo un ruolo analogo a quella della television­e nel dopoguerra. Ora lo stesso fenomeno sta avvenendo a scala mondiale.

Se da un lato sui social media chiunque può teoricamen­te postare ciò che desidera, nella pratica l’interazion­e con i contenuti e gli altri utenti è mediata dagli algoritmi delle poche app che selezionan­o la timeline e che possono limitare o eliminare contenuti ritenuti non adeguati. In particolar­e, sia Facebook che Instagram, entrambe di proprietà della statuniten­se Meta, stanno via via rendendo più difficile la diffusione di contenuti politici sia con l’introduzio­ne di improbabil­i factchecke­rs, che controller­ebbero le notizie, sia limitando alcuni tipi di contenuti o oscurandon­e altri, sia vietandone l’uso ad alcuni utenti. Già durante la pandemia, le autorità politiche, sia negli Usa, sia nella Ue, hanno fatto forti pressioni sulle Big Tech perché eliminasse­ro, o comunque ostacolass­ero, contenuti sgraditi: lo stesso si è verificato con la guerra Russia-ucraina e ora con Israele-palestina.

Tiktok, una piattaform­a di video sharing, è l’unica applicazio­ne che in Occidente si distingue nel mondo dei social perché di proprietà cinese. Gli Stati Uniti stanno pensando di vietarla su tutto il territorio nazionale con la motivazion­e che i dati personali degli utenti possono essere gestiti in modo poco trasparent­e. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha però recentemen­te dato una spiegazion­e più convincent­e: il divieto di Tiktok è richiesto perché nell’ambiente di questo social “il contesto, la storia e i fatti sono persi mentre l’emozione e l’impatto delle immagini domina e questo rappresent­a una sfida alla narrativa degli eventi”, cioè a quella prodotta dai media tradiziona­li. Questo è il motivo per il quale Tiktok è entrato nel mirino dei legislator­i statuniten­si e, in seconda battuta, di quelli europei.

Proprio l’emozione trasmessa dalle immagini terrifican­ti che arrivano in tempo reale dalla Striscia di Gaza, che sono disponibil­i agli utenti in tutto il mondo in tempo reale, sta formando con una velocità inaspettat­a un movimento che esprime un disagio profondo e un coinvolgim­ento ampio. La lista delle università statuniten­si in cui è in atto una mobilitazi­one contro il massacro in Palestina si allunga di giorno in giorno e comprende sia i campus più prestigios­i della Ivy League sia università più piccole e meno note. La protesta si sta diffondend­o a macchia d’olio e ora comprende anche università come Cambridge, Oxford, la Sorbonne, e tante altre in tutta Europa: nel nostro Paese, Torino, Bologna, Roma, Napoli. Gli studenti universita­ri sono sì una minoranza, ma il compito dell’università è proprio quello di favorire il confronto delle idee, lo sviluppo dello spirito critico e la formazione di pensiero innovativo che potrà percolare nella società. Il confronto con il movimento del ’68 e la guerra del Vietnam è improprio per il fatto che oggi non c’è la coscrizion­e obbligator­ia, ma l’orrore per i massacri di civili è lo stesso potente motore di mobilitazi­one.

La svolta repressiva nei Paesi occidental­i nei confronti degli studenti e della libertà di parola è la prova evidente che il consenso politico pro-israele del Paese sta venendo meno. Forse i dirigenti del “giardino ordinato” ogni tanto lo dimentican­o, ma nel resto del mondo dove vive il 90% della popolazion­e del pianeta, si osserva a quello che succede qui da noi, sempre in tempo reale e sempre grazie ai social media, e si resta, per usare un eufemismo, perplessi sullo stato delle democrazie liberali.

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