C’È TROPPA GAZA SU TIKTOK PER QUESTO LO OSCURANO
Gli studenti di centinaia di università nel mondo occidentale chiedono una sola cosa: la fine dello sterminio a Gaza. Le immagini che arrivano dalla Palestina passano con difficoltà nei media tradizionali, ma straripano nei social media ormai accessibili in tutto il mondo in tempo reale. Il vettore di questa diffusione è lo smartphone. Come spiega Juan Carlos De Martin nel suo bel libro Contro lo smartphone – Per una tecnologia più democratica (ADD editore), mai prima d’ora un’innovazione tecnologica aveva raggiunto una portata così vasta così velocemente, diventando indispensabile per le attività quotidiane.
Oggi si conta che almeno metà della popolazione mondiale, 4 miliardi di persone, passi in media dalle 4 alle 5 ore al giorno utilizzando lo smartphone. Tre quarti del tempo sono dedicati ai social media come Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, Tiktok e Whatsapp. Soprattutto le giovani generazioni, avendo quasi completamente abbandonato la carta stampata e i talk show televisivi, acquisiscono la gran parte dell’informazione proprio dai social media. Lo smartphone sta dunque svolgendo un ruolo analogo a quella della televisione nel dopoguerra. Ora lo stesso fenomeno sta avvenendo a scala mondiale.
Se da un lato sui social media chiunque può teoricamente postare ciò che desidera, nella pratica l’interazione con i contenuti e gli altri utenti è mediata dagli algoritmi delle poche app che selezionano la timeline e che possono limitare o eliminare contenuti ritenuti non adeguati. In particolare, sia Facebook che Instagram, entrambe di proprietà della statunitense Meta, stanno via via rendendo più difficile la diffusione di contenuti politici sia con l’introduzione di improbabili factcheckers, che controllerebbero le notizie, sia limitando alcuni tipi di contenuti o oscurandone altri, sia vietandone l’uso ad alcuni utenti. Già durante la pandemia, le autorità politiche, sia negli Usa, sia nella Ue, hanno fatto forti pressioni sulle Big Tech perché eliminassero, o comunque ostacolassero, contenuti sgraditi: lo stesso si è verificato con la guerra Russia-ucraina e ora con Israele-palestina.
Tiktok, una piattaforma di video sharing, è l’unica applicazione che in Occidente si distingue nel mondo dei social perché di proprietà cinese. Gli Stati Uniti stanno pensando di vietarla su tutto il territorio nazionale con la motivazione che i dati personali degli utenti possono essere gestiti in modo poco trasparente. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha però recentemente dato una spiegazione più convincente: il divieto di Tiktok è richiesto perché nell’ambiente di questo social “il contesto, la storia e i fatti sono persi mentre l’emozione e l’impatto delle immagini domina e questo rappresenta una sfida alla narrativa degli eventi”, cioè a quella prodotta dai media tradizionali. Questo è il motivo per il quale Tiktok è entrato nel mirino dei legislatori statunitensi e, in seconda battuta, di quelli europei.
Proprio l’emozione trasmessa dalle immagini terrificanti che arrivano in tempo reale dalla Striscia di Gaza, che sono disponibili agli utenti in tutto il mondo in tempo reale, sta formando con una velocità inaspettata un movimento che esprime un disagio profondo e un coinvolgimento ampio. La lista delle università statunitensi in cui è in atto una mobilitazione contro il massacro in Palestina si allunga di giorno in giorno e comprende sia i campus più prestigiosi della Ivy League sia università più piccole e meno note. La protesta si sta diffondendo a macchia d’olio e ora comprende anche università come Cambridge, Oxford, la Sorbonne, e tante altre in tutta Europa: nel nostro Paese, Torino, Bologna, Roma, Napoli. Gli studenti universitari sono sì una minoranza, ma il compito dell’università è proprio quello di favorire il confronto delle idee, lo sviluppo dello spirito critico e la formazione di pensiero innovativo che potrà percolare nella società. Il confronto con il movimento del ’68 e la guerra del Vietnam è improprio per il fatto che oggi non c’è la coscrizione obbligatoria, ma l’orrore per i massacri di civili è lo stesso potente motore di mobilitazione.
La svolta repressiva nei Paesi occidentali nei confronti degli studenti e della libertà di parola è la prova evidente che il consenso politico pro-israele del Paese sta venendo meno. Forse i dirigenti del “giardino ordinato” ogni tanto lo dimenticano, ma nel resto del mondo dove vive il 90% della popolazione del pianeta, si osserva a quello che succede qui da noi, sempre in tempo reale e sempre grazie ai social media, e si resta, per usare un eufemismo, perplessi sullo stato delle democrazie liberali.