.I MEDIATORI SUL CARRO. .DEL PREMIERATO.
Circa due mesi fa, varie associazioni tra le quali Libertà Eguale e la Fondazione Magna Carta, hanno proposto una riforma condivisa tra maggioranza e opposizioni della forma di governo ispirata a un premierato fondato non sulla elezione diretta, ma sulla indicazione popolare obbligatoria del presidente del Consiglio.
Colpivano nel documento comune la sostanziale equiparazione delle responsabilità a fronte di una maggioranza che ha imposto la sua volontà di elezione popolare del capo del governo respingendo tutte le proposte delle opposizioni e l’obiettivo di evitare a ogni costo il referendum costituzionale che sarebbe condizionato dai condizionamenti politici, straordinaria contraddizione di chi vuole attribuire al popolo la scelta del “primo ministro” (così definito nella proposta) e lo considera inabile a pronunciarsi sulla modificazione della Costituzione che gli darebbe tale potere.
Nei giorni scorsi, sono state rese note le proposte di emendamento al progetto Meloni-casellati, attribuite da alcuni organi di stampa ai “costituzionalisti riformisti”. Qualificazione questa molto discutibile, in quanto una modificazione della Costituzione merita l’appellativo di “riformista” se cambia in meglio il funzionamento delle istituzioni e la qualità della democrazia, mentre in caso contrario assume piuttosto natura “regressiva”. Inoltre l’autodefinizione come “riformisti” relega al ruolo di “conservatori” i numerosi e importanti costituzionalisti critici del premierato che hanno formulato proposte alternative di razionalizzazione della forma di governo parlamentare nel quadro di un rafforzamento del ruolo del Parlamento, di una riforma dei partiti e del cambiamento di una legge elettorale abnorme e che limita la libertà del voto.
Nel merito, gli emendamenti indicano il sostanziale accreditamento del premierato elettivo. Ve ne sono due che si propongono di limitarne gli effetti abnormi. Il primo è la considerazione del voto degli italiani residenti all’estero in termini non assoluti, che potrebbe farli risultare decisivi per l’elezione di un capo del governo minoritario in base ai voti ottenuti sul territorio nazionale, ma in relazione al numero di seggi a essi attribuito (otto alla Camera, quattro al Senato). Il secondo è l’allargamento del collegio che elegge il presidente della Repubblica ai parlamentari europei e a rappresentanti delle autonomie locali e l’innalzamento del quorum dopo il terzo scrutinio dalla maggioranza assoluta al 55% dei componenti del collegio. L’intenzione di rafforzare la legittimazione del capo dello Stato è illusoria di fronte a un presidente del Consiglio investito dal popolo; inoltre il nuovo quorum si identifica con quello derivante dal premio di maggioranza indicato dai proponenti, che lascerebbe comunque nelle mani della maggioranza la scelta, mentre sarebbe doveroso stabilire maggioranze più alte (come i tre quinti dei componenti).
La polpa delle proposte è comunque un’altra: il compromesso tra elezione indiretta del primo ministro quale candidato della coalizione che ottenga la maggioranza assoluta dei seggi e sua elezione diretta qualora nessun raggruppamento conquisti tale maggioranza mediante il ballottaggio trai candidati delle due coalizioni più votate. La proposta ha un duplice difetto: comporta una dissociazione del voto tra primo e secondo turno nel quale scompaiono partiti e coalizioni e restano in lizza due persone, ma soprattutto nel secondo turno è il voto dato al vincente a trascinare la maggioranza parlamentare con il premio del 55% dei seggi, che potrebbe essere attribuito in una o entrambe le Camere anche alla coalizione arrivata al secondo posto al primo turno. Non a caso l’autore della proposta di fronte alla Commissione bicamerale D’alema nel 1997, l’attuale presidente della Corte costituzionale Barbera, si chiedeva con onestà intellettuale se la proposta non “blinderebbe talmente il premier da fare correre il rischio di indebolire eccessivamente il Parlamento minandone l’autonomia”.
In sostanza la proposta vuole imporre la derivazione popolare del capo del governo, inesistente nel mondo democratico, in stretta congiunzione con l’elezione del Parlamento e quindi viola il principio di separazione e di equilibrio tra potere legislativo e potere esecutivo, che nei sistemi di tipo presidenziale è garantito dalla loro elezione separata e quindi dalla possibilità che il presidente eletto dal popolo non abbia la maggioranza in Parlamento. Quindi finisce per legittimare il progetto di premierato elettivo e ne assume i difetti. In particolare ridimensiona nettamente i poteri del presidente della Repubblica di formazione del governo e di scioglimento anticipato delle Camere, che è nelle mani del primo ministro legittimato dal popolo dimissionario; mortifica il Parlamento, già oggi esautorato nel concreto esercizio della potestà legislativa e privo di forti strumenti di controllo, eletto al carro del capo del governo e sempre soggetto alla spada di Damocle dello scioglimento se non vota la fiducia iniziale o approva una successiva mozione di sfiducia o su iniziativa del presidente del Consiglio. Non a caso i “mediatori” non toccano minimamente le norme che disciplinano la formazione del governo e lo scioglimento anticipato del Parlamento e non prevedono alcun istituto, come la mozione di sfiducia costruttiva che consente alla maggioranza del Parlamento di investire un nuovo primo ministro. Inoltre il progetto governativo non garantisce affatto la stabilità, consentendo la sostituzione del premier eletto con un parlamentare a lui collegato, che potrebbe dare vita a una nuova maggioranza. Soluzione questa che diventa obbligata in caso di morte, impedimento permanente, decadenza del presidente del Consiglio, situazioni accomunate nel pessimo testo meloniano a quella delle dimissioni senza richiesta di scioglimento, il che adombra un possibile “effetto Lazzaro” di conferimento dell’incarico al premier deceduto, gravemente malato o decaduto.
Infine le profferte indirizzate al centrodestra hanno ben poca possibilità di essere accolte, in quanto l’elezione popolare del presidente del Consiglio voluta da FDI è il frutto di un baratto con l’autonomia differenziata sostenuta dalla Lega ed è la sostanza di un progetto populista e plebiscitario. Motivo che dovrebbe spingere chi vuole salvaguardare gli equilibri costituzionali a contrapporsi a esso senza alcuna ambiguità.
ILLUSIONE DEMOCRATICA La proposta del gruppo di costituzionalisti vuol imporre la derivazione popolare del capo del governo che, congiunta all’elezione del Parlamento, viola il principio di separazione dei poteri