Addio Marini, chitarra e voce del canto pasoliniano
la superficie. Giovanna raccontava di quando Pasolini, non ancora marchiato dall’infamia, portò gli studenti in una chiesa a Casarsa. L’insegnante trovò strano che le pareti del tempio fossero bianche, senza dipinti. Diede ai ragazzi delle cipolle e li invitò a sfregarle sui muri: emersero affreschi. La Bellezza era là sotto, andava cercata. Di tutti gli incontri della vita – Fo, Moravia, Flaiano, Calvino, Pete Seeger, De Gregori nel “Fischio del vapore” – la Marini portò sempre al centro dell’anima Pier Paolo. Si erano conosciuti nel ‘60, la luce gloriosa di un attico su piazza di Spagna, distante anche come coté dal Folkstudio e da quella che sarebbe stata, molto dopo, la Scuola Popolare della musica di Testaccio. Quel giorno la sinistra charmante era nel salotto della giornalista Berenice. Giovanna suonava la Ciaccona di Bach, il poeta le chiese di cantarci sopra. Impossibile, replicò la ragazza. Troviamo qualcosa di vero, di vivo, insistette lui, e propose Gabriella Ferri. Si accapigliarono su una lauda di Cortona, polvere museale, sepolta dai secoli. “Ma non siamo tra intellettuali?” disse l’ex allieva di Segovia. Siciliano ed Eco le fecero notare che nel Paese c’era un fermento di scoperta delle voci dei meno garantiti. Gli operai, i contadini, le mondine. Il Salento di De Martino, l’emilia, la radice partigiana. I Cantacronache. Quattro anni più tardi gli artisti-studiosi del Nuovo Canzoniere Italiano (tra loro la Marini) andarono a schiena dritta a Spoleto con Bella Ciao ,i fascisti insorsero.
Dopo l’idroscalo Giovanna compose Persi le forze mie, che poi trasformò in Lamento in morte di Pasolini; ne portò a Parigi il lavoro I Turcs tal Friul, scrisse l’oratorio su Le ceneri di Gramsci.
Ritrovò lo spettro dell’amico nello spettacolo-indagine Sono Pasolini. L’aveva riabilitato, grattando via il disprezzo.