Prima retrograda poi gagliarda: come il Pci non ha saputo fare i conti con la tv
Al tempo di Telemeloni la ripubblicazione del saggio di Giandomenico Crapis, Il frigorifero nel cervello, pubblicato da Editori riuniti nel 2002 e riproposto solo con una postfazione, “perché sostanzialmente non è cambiato niente”, permette di ragionare di televisione in termini più profondi.
Il libro analizza l’atteggiamento del Partito comunista italiano nei confronti della Tv e della Rai in particolare, seguendone l’evoluzione e una traiettoria sofferta e convulsa. Negli anni 50 questo atteggiamento è sintetizzabile nella tesi della tv come strumento che “estranea le masse”, “ottunde la capacità di giudizio”, la cultura del partito, di stampo sostanzialmente idealo-marxista al massimo si interessava di cinema, in effetti uno dei fiori all’occhiello degli interessi culturali comunisti. Sarà invece proprio Palmiro Togliatti a cogliere nei primi anni Sessanta le novità del mezzo televisivo (un ruolo lo svolgerà anche, come responsabile culturale, Rossana Rossanda), ma nulla di significativo accadrà fino alla “riforma” di metà anni 70 che deve fare i conti con l’irruzione delle tv private di “antenna libera”. Da lì il Pci svecchia un po’ i linguaggi e le lenti con cui osserva il fenomeno fino all’apertura decisa propiziata in particolare da un allora giovane dirigente: Walter Veltroni. Gli anni 80 sono quelli dell’approdo a una concezione che valorizza il prodotto televisivo, non disdegna la possibilità di cimentarsi con una rete, la 3, assegnata dalla “lottizzazione perfetta” (D’alema) al Pci anche se c’è un piccolo problemino che non si riesce a risolvere: Berlusconi. La presa del Silvio nazionale sulle televisioni si dimostrerà più forte di tutto, i dirigenti ex Pci, e poi Pds-ds fino al Pd, non saranno mai in grado di trovare contromisure, neppure quando governano, come nel 1996, oscillando tra “disarmo bilanciato” e co-gestione. Quello che la Rai vive ancora oggi e che la rende insopportabile.