LA FESTA A BASE DI BIRRA, LA MOGLIE DEL GENERALE E QUEI SALUTI NECESSARI
Da un racconto apocrifo di Giuseppe Zucca. Adoravo mia moglie, e la mia vita con lei non aveva nulla da invidiare a nessuno. Eravamo sposi da circa un lustro. Lei era molto più giovane di me, ma io non ero affatto vecchio. In lei avevo una fiducia assoluta e mi curavo di procacciarle tutte le comodità di cui manifestava il bisogno. Un giorno il colonnello Manetti fu promosso di grado e mi invitò, con altri ufficiali, a festeggiare in casa sua. Faceva un gran caldo e bevvi un’enorme quantità di birra. Scendendo le scale, mi accorsi di averne in corpo un numero eccessivo di litri: urgeva espellerli. Mi diressi frettoloso a una specie di garitta di ferro non lontana da lì, allorché mi imbattei nella moglie del generale Moschin. Dopo i saluti mi domandò di mia moglie, quindi mi trattenne in chiacchiere per una quindicina di minuti, durante i quali, pur con tutto il rispetto dovuto a una signora, cercai in tutti i modi di tagliar corto, senza riuscirci. Mi chiese infine dove stavo andando. Naturalmente non potevo risponderle che mi stavo precipitando a una garitta poco distante dove avrei eccetera; perciò, dissimulando la mia contrarietà, mi limitai a dire: “Da nessuna parte”. “Benissimo” disse, “mi accompagni a casa”. Ero in trappola. “Molto volentieri”. E mi incamminai al suo fianco. Purtroppo, quella donna apparteneva alla specie odiosa che si ferma ogni quattro passi per dare maggior risalto ai suoi discorsi noiosi. Io rispondevo a monosillabi e guardavo ora a destra ora a sinistra, cercando una via di scampo. Lei notò la mia inquietudine: “Sembra che la affligga qualcosa”. “A me? Nemmeno per sogno. Glielo giuro. Tutto benissimo”. Soffrivo molto, invece; ma non ero ancora alla feccia del calice. La signora Moschin entrò in un negozio e mi fece attendere fuori. La mia ansia, fermo, impalato all’ingresso, cresceva, cresceva. Cominciai a muovermi, a fare qualche passo, ed ero già deciso a scappare quando lei riapparve. Arrivati sotto casa mi trattiene un altro quarto d’ora. Non ricordo quello che mi disse, ero ossessionato da questa idea: “Sto per scoppiare. Offrirò uno spettacolo terribile alla moglie del generale”. “Perché non viene su? Mio marito è in casa”. “Grazie, signora. Gli porga i miei saluti.” “Salga.” “Oh!” protestai, abbandonandomi senza ritegno all’impresa di levare ora una gamba e ora l’altra per alleviare le mie pene. Lei non mollava: “Appena cinque minuti”. “Impossibile!” ruggii, e mi allontanai a passi velocissimi. Dove andare? Il generale viveva in una via troppo frequentata perché un uomo in uniforme potesse insudiciarvi un muro. Giunsi a credere che fosse necessario morire eroicamente. Mi pareva che la birra ingerita si agitasse nella mia cavità addominale come i cavalloni in un mare infuriato. E sentivo i reni che lavoravano incessantemente, distillando, distillando. La mia casa non era lontana. “A casa!” decisi. Ci arrivai in furia, come un pazzo. Entrai in ascensore: non funzionava. Uscii e salii a grandi salti i tre piani. Trassi di tasca la chiave. Le mani mi tremavano a tal punto che tardai oltre un minuto ad aprire la porta. E, senza indugiare a richiuderla, entrai come un fulmine; ma oltrepassando una stanza vidi quello che non potrò scordare: mia moglie fra le braccia del capitano Eugenio di Belmonte. Fu come ricevere una palla nel petto. Indugiai un istante, ma non ne potevo più. Affacciai la testa e urlai: “Vi ucciderò, miserabili! Torno subito!” E mi precipitai in bagno. Mi fu impossibile, assolutamente impossibile, agire diversamente. Mi soffermai quanto bastava. Emisi un sospirone. “Finalmente!” esclamai. Corsi nella stanza che ospitava i colpevoli: nessuno. Cercai per tutta la casa: nessuno. I vili avevano approfittato del contrattempo per fuggire.