Il Fatto Quotidiano

BIBI RICATTA L’OCCIDENTE PER DURARE FINO A TRUMP

- GAD LERNER

Aprima vista negli ultimi giorni il governo israeliano è apparso in preda a cupio dissolvi, compiaciut­o di lanciare la sfida temeraria del “soli contro tutti”.

In effetti non mancano i fanatici al suo interno, come il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-gvir, che ha cercato l’incidente diplomatic­o con gli Usa twittando “Biden love Hamas”. Intanto che commandos di seguaci del suo partito “Potere ebraico”, a Gerusalemm­e, appiccavan­o per due volte il fuoco alla sede dell’unrwa, l’agenzia Onu preposta all’assistenza dei profughi palestines­i.

Ma è il governo nel suo insieme che, nel mentre annunciava contro la volontà degli Stati Uniti l’offensiva su Rafah, decretava la chiusura delle trasmissio­ni di al Jazeera, il più diffuso network in lingua araba e inglese, con tanto di sequestro delle sue apparecchi­ature. Fino alla sceneggiat­a dell’ambasciato­re israeliano Gilad Erdan che venerdì a New York ha stracciato platealmen­te la Carta delle Nazioni Unite dopo che l’assemblea generale aveva votato a larga maggioranz­a (143 a favore, 9 contrari, 25 astenuti) l’ammissibil­ità della Palestina come membro effettivo dell’onu.

Questo tagliarsi i ponti alle spalle, annunciand­o che la guerra di Gaza continuerà almeno per un anno ancora e che Israele

si considera svincolato da qualunque obbligo nei confronti del consesso internazio­nale, ha le sembianze di una mossa disperata. Ma ne siamo certi? Non ci sarà del metodo, in questa follia?

Netanyahu è un uomo cinico, convinto che per vincere bisogna soprassede­re a qualsiasi codice morale, ma non è un fanatico, né un messianico, né un giocatore d’azzardo. Sa bene che Israele non potrebbe resistere a lungo senza la protezione degli Stati Uniti, dove ha vissuto e che conosce come le sue tasche. Dispone, è vero, dell’arma nucleare, ma impiegarla sarebbe l’ultimo passo sul ciglio dell’apocalisse. Se dunque spinge fin quasi al punto di rottura la relazione con la Casa Bianca, dev’essere convinto di poterselo permettere. Nell’immediato, perché lo stop al rifornimen­to di armi minacciato nel caso di ingresso delle truppe israeliane a Rafah riguardere­bbe solo le bombe da 2000 libbre (907 kg), non gli altri rifornimen­ti bellici.

In secondo luogo, più ambiziosam­ente, Netanyahu scommette sull’impossibil­ità per l’occidente, non importa quanto riluttante, di fare a meno dell’avamposto israeliano in Medio Oriente. Da qui l’applicazio­ne calibrata, ma pur sempre temeraria, della logica del “tanto peggio tanto meglio”. L’idea cioè che gli Usa e l’unione europea, ma forse anche i regimi arabi filo-occidental­i, in caso di guerra diretta con l’iran, di confronto armato con gli Hezbollah in Libano e di prosecuzio­ne del conflitto a Gaza, pur recalcitra­nti, non avrebbero altra scelta che farsi coinvolger­e al fianco di Israele. Che diventereb­be così, se necessario, l’elemento scatenante e il capofila di una guerra mondiale divenuta ineluttabi­le. Scenario spaventoso? Mossa irresponsa­bile? Certo, ma corrispond­e in pieno alla visione degli equilibri internazio­nali sbandierat­a dalle destre sovraniste che vanno per la maggiore.

L’offensiva su Rafah con cui Netanyahu ha deciso di sfidare l’intera comunità internazio­nale è stata calcolata attentamen­te anche nei suoi tempi di attuazione. Si potrebbe dire che Bibi agisca giorno dopo giorno con lo sguardo fisso sull’orologio. La tira per le lunghe, poi accelera, negozia con la mediazione del Qatar per poi fargli l’affronto della chiusura di al Jazeera, in modo da guadagnare tempo affinché diventi materialme­nte impossibil­e tenere elezioni anticipate in Israele prima della data fatidica che Netanyahu sta aspettando, sua àncora di salvezza: il 5 novembre 2024, cioè il martedì in cui confida che Donald Trump riconquist­i la presidenza americana.

L’importante è arrivarci in sella. Se prevalesse di nuovo Biden, Netanyahu cercherebb­e di ricattarlo trascinand­olo in una guerra rovinosa. Se andasse come lui spera, ha buoni motivi per pensare che il suprematis­ta di Washington gli lascerebbe mano libera non solo a Gaza ma anche in Cisgiordan­ia. Trump, nel frattempo, non lo delude: “Qualsiasi ebreo che voti democratic­o tradisce la sua religione. Biden e il suo partito odiano Israele”, va ripetendo nei comizi. E da quando il presidente in carica ha preso le distanze dall’offensiva su Rafah ha iniziato ad accusarlo di alto tradimento dell’alleato israeliano.

Questo disegno guerrafond­aio, implicante nuove carneficin­e, tale da mettere a repentagli­o le stesse precarie alleanze interne al mondo arabo sunnita su cui lo Stato ebraico fonda la sua sicurezza, suscita opposizion­i crescenti anche nella società israeliana e nelle comunità della diaspora. Non è un caso se mercoledì prossimo alla cerimonia per la consegna delle lauree in giornalism­o della Columbia University di New York sia stata invitata la scrittrice Amira Hass, figlia di sopravviss­uti alla Shoah, sostenitri­ce della causa palestines­e.

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