Il Fatto Quotidiano

Le non dimissioni di Toti: essere eletti non giustifica tutto

- SILVIA TRUZZI

L’indagine che sta scuotendo la Regione Liguria ha scoperchia­to un sistema di potere di cui verrà appurato l’eventuale contorno criminale. Il presidente della Regione Giovanni Toti intanto è agli arresti domiciliar­i con l’accusa di corruzione: dalla mattina del 7 maggio mezzo governo interviene criticando l’operato dei magistrati, il solito riflesso pavloviano a suon di “siamo garantisti”, “servono tre gradi di giudizio” e via dicendo con il solito repertorio di indignazio­ni assortite. Perfino il ministro Guardasigi­lli si è espresso (ma va?) contro la decisione del gip di concedere, su richiesta della procura, gli arresti domiciliar­i. Le sue perplessit­à naturalmen­te non sono politiche, ma “tecniche” (parola sotto la quale si nascondono spesso le peggiori intenzioni) e “riguardano l’adozione della misura rispetto ai tempi in cui è stato commesso il reato e al tempo in cui sono iniziate le indagini”. Dice: “Da pubblico ministero raramente ho chiesto provvedime­nti di custodia cautelare dopo anni di indagine, tenendo conto se pericolo di fuga, reiterazio­ne e inquinamen­to delle prove dopo tanti anni dall’evento che si è verificato possano ancora sussistere”. È ovvio che Nordio sarebbe il primo tenuto al silenzio, per ragioni di opportunit­à e rispetto del principio della divisione dei poteri che, fino a prova contraria, sta alla base dello Stato di diritto e del corretto funzioname­nto democratic­o. Il ministro

Crosetto nello studio di Lilli Gruber si è chiesto: “Come fa Giovanni

Toti a governare agli arresti domiciliar­i? È evidente che questa condizione, insieme alla pressione psicologic­a che arriva da tutte le parti, lo obbligherà a dimettersi”. Poi ha fatto un elenco di politici, presidenti di Regione e non solo, indagati e successiva­mente assolti. La presidente del Consiglio invece ha detto di “aspettare la versione di Toti” che comunque, a detta di detta Giorgia, sta governando bene la Liguria. Toti verrà interrogat­o domani dai pm, ma ieri il suo avvocato, a proposito delle dimissioni, ha precisato: “Prima di prendere qualsiasi decisione vuole confrontar­si con gli alleati”. Tutto rimandato a dopo la revoca dei domiciliar­i.

NOI, È FATTO NOTORIO,

siamo il giornale delle manette e tuttavia ci è chiaro che in questa situazione un conflitto c’è: pesa anche l’investitur­a popolare, che nel caso è pure diretta, vista la legge elettorale delle Regioni (il presidente è eletto in un turno solo con la maggioranz­a relativa, qualunque sia), un obbrobrio democratic­o che non sarebbe meno mostruoso se applicato a livello nazionale, come rischiamo accada. Ma resta il fatto che Toti è stato eletto, governa (bene o male) con il mandato del popolo. La norma penale però disciplina i reati, il processo li accerta. La politica non può sempre demandare al Codice penale le decisioni, lo ripetiamo invano da anni: ci sono comportame­nti che non sono reati, ma che sono inopportun­i politicame­nte. Non è un caso che dai cittadini cui sono affidati funzioni pubbliche la Costituzio­ne pretenda “disciplina e onore”. Una cosa che dovrebbe valere anche per Daniela Santanchè, indagata per truffa aggravata, che non ha nessuna intenzione di dimettersi, anzi. Come pensano di colmare la famosa distanza tra cittadini e politica, se non dando il buon esempio almeno su questioni minimali? Altrove ci si dimette per aver copiato una tesi di laurea, perché da noi non succede nemmeno quando una raccolta di firme (20 mila, raddoppiat­e nel giro dell’ultima settimana) chiede al presidente di fare un igienico passo indietro? Perché la fantomatic­a guerra tra magistratu­ra e politica non finisce mai, o almeno così racconta una classe dirigente che non accetta il principio di obbligator­ietà dell’azione penale. Infatti si apprestano a scardinare l’ordinament­o giudiziari­o per addomestic­are ogni forma di controllo: completera­nno l’opera iniziata da B.

DILEMMI E SE POI LO ASSOLVONO? LA POLITICA NON PUÒ RIDURSI AL CODICE PENALE

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