“IO NON SO NULLA: AMO TUTTO”
“Parthenope”, donne, Napoli
“Parthenope non è una lettera d’amore, che non so scrivere, ma il mistero della donna e di Napoli”. Con il lutto – là morivano i (suoi) genitori, qui un fratello che fatalmente “già sapeva tutto” – per trait d’union, Paolo Sorrentino torna sotto il Vesuvio dopo È stata la mano di Dio, calmiera la bravura, che rischia l’abilità, e si lega, come Ulisse, all’albero maestro di un film sottilmente autobiografico.
In Concorso a Cannes 77 e in autunno nelle nostre sale, Parthenope non contempla “nostalgia, malinconia e rimpianto, ma il passaggio dell’età: la verità non fa parte della giovinezza, dove gli incidenti di percorso vengono rimossi e dominano insincerità, sogno e desiderio. Giovinezza è il racconto epico del sé, che si interrompe per dirla con Kierkegaard con l’ingresso nella vita etica”. Cantata da Cocciante, Paoli e Sinatra, è memore del corpus cinematografico e della città che la alimenta: “Sono stata triste e frivola, determinata e svogliata, come Napoli”, e quindi ecco la donna in più, le conseguenze dell’amore, youth e – l’originaria indicazione fu spuria, Napul’è – this must be the place.
Se “l’antropologia è vedere”, se Céline dopo La grande bellezza ancora il nume in esergo – “Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto” –, Parthenope dal 1950 fin qui, da Napoli a Trento e ritorno, tra colera, Sessantotto, terremoto e scudetto ultimo, si dà nella certezza che sia “impossibile essere felici nel posto più bello del mondo” e nell’aporia che “la verità è indicibile”. E come può essere raccontato, questo viaggio, se non nel principio di piacere socratico dell’“io non so niente, ma mi piace tutto?”.
CORPO SENZIENTE, sorriso disarmante, occhi di cerbiatto indagatore, la debuttante Celeste Dalla Porta è Parthenope – adulta tocca a Stefania Sandrelli – nel Segno di Venere di Risi e di Cerasella di Matarazzo: a lei, al termine della notte e delle acque che le sottraggono il fratello, toccherà dirimere “tra l’irrilevante e il decisivo”, i termini entro cui sempre si dibatte il cinema di Sorrentino. Che, egli stesso Parthenope e vieppiù Odisseo, confessa: “Ho rinunciato all’ambizione di raccontare la donna, a cui ho però accostato il mio lato femminile: gli uomini, con infantilismo, credono che non li riguardi”.
Letterariamente c’è John Cheever, un commovente Gary Oldman (“Ho vissuto quella malinconia, la solitudine, l’autodistruzione e l’abuso di alcol: avremmo potuto fare a gara di bevute, l’ ho trovato a livello istintivo, non è un ritratto biografico”), ma ancor più Dudù La Capria di Ferito a morte e Curzio Malaparte de La pelle, sicché bassi e degrado, meretricio e copule inter-camorristiche, agenti sfigurate (Isabella Ferrari) e dive dal Nord (Luisa Ranieri), la scorciatoia d’attrice e il vizio di forma, il professore Marotta (grande Silvio Orlando) e l’università dove “si viene già pisciati e cacati”.
Falcando il silenzio che “nei belli è un mistero, nei brutti un fallimento”, dribblando gli amori, quelli “di gioventù che non sono serviti a niente”, e l’amore, che “non è gestibile, da Gesù ai cantanti provano tutti a venirne a capo”, Parthenope si fa miracolo della scena – il Neorealismo a cui Paolo si è sempre sottratto – e miracolo dell’osceno, con le lusinghe di Achille Lauro e la concupiscenza del cardinale Tesorone (Peppe Lanzetta, demoniaco), che frugandola nelle parti intime otterrà il miracolo di San Gennaro mancato in chiesa. Anche qui, ehm, È stata la mano di Dio. il tempo
ELOGIANDO “DOLORE e seduzione che consentono di saltare forma e preamboli”, Sorrentino dirige una prima parte parcamente folgorante, poi non ci nasconde nulla: mestruo e masturbazione nel nome di Dio; il figlio di Marotta, che è acqua, sale e omerico mostro; l’iperbole e il grottesco, che raccorciano un poco il film. Nondimeno, “chi è innamorato se ne accorge prima o poi”, e il cinema continua a ricambiare doviziosamente Sorrentino, il quale tra eccellenza tecnica e riflessione meta-cinematografica (apre con “Hai gli occhi spenti”) ricorda come sia “difficilissimo vedere perché è l’ultima cosa che si impara quando inizia a mancare tutto il resto”, ma ancora facile filmare perché è l’ultima cosa che si dimentica quando inizia a mancare tutto il resto. Sì, Parthenope ambisce a un premio, ancor più in questa Cannes scipita.
Potrebbe anche Chiara Mastroianni, che per scrollarsi di dosso l’ingombrante figura paterna l’avoca a sé in Marcello mio, l’intelligente film di Cristophe Honoré co-prodotto dall’italia e ingentilito tra verità e finzione da Catherine Deneuve e Fabrice Luchini. I dialoghi tra madre (Deneuve) e figlia (Chiara) non si battono, i rovelli tra arte e asse (ereditario) non sono peregrini, di certo la parte francese, al netto della riunione di famiglia allargata a Formia, si fa assai preferire a quella nostrana e caciarona. Tutto il resto è Trump, che via comitato elettorale minaccia di denunciare The Apprentice per la scena di stupro a suo carico.
Autofiction e papà (Marcello) Il premio Oscar: “L’amore non è gestibile, da Gesù ai cantanti provano tutti a venirne a capo” Brava la Mastroianni alias suo padre