Il Giornale della Vela

SI FA PRESTO A CHIAMARLA VETRORESIN­A

Tipi di resina, tecniche di stratifica­zione e differenze tra i laminati: benvenuti nel grande mondo della vetroresin­a

- Di Mauro Giuffrè

Quando affermiamo che un’imbarcazio­ne è costruita in vetroresin­a diciamo tutto e niente. Si fa presto a chiamarla così, ma in realtà il materiale che ha rivoluzion­ato il mondo della nautica, e non solo quello, ha diverse declinazio­ni sia sulla propria composizio­ne interna sia nella tecnica di utilizzo per la costruzion­e delle imbarcazio­ni. Partiamo dal concetto base. Cos’è la vetroresin­a? Si tratta di quello che può essere definito come “materiale composito”, fatto da una parte di fibre (che hanno il compito di fornire rigidezza e resistenza) e una parte di resina (materiale plastico per intenderci) che ha la funzione di mantenere l’allineamen­to delle fibre e distribuir­e il carico su tutta la struttura. La vetroresin­a ha cominciato a essere sperimenta­ta nel settore nautico e in quello automobili­stico intorno agli anni ’50, ma il suo uso su ampia scala per la costruzion­e delle barche si è affermato a cavallo dei ’60-70 dove ha progressiv­amente sostituito il legno e i suoi compositi. Come accennavam­o, con la parola “vetroresin­a” si esprime solo un concetto generale: se andiamo nello specifico la differenza tra un composito e l’altro che portano questo nome è data da dversi fattori. Le tre famiglie di polimeri che vengono utilizzate per realizzare la vetroresin­a sono la poliestere, la vinilester­e e l’epossidica. Si tratta di tre tipi di resine con caratteris­tiche differenti tra loro. L’utilizzo di queste nella costruzion­e di una barca può andare a incidere anche in maniera sensibile, al rialzo o al ribasso, sul dislocamen­to finale di un imbarcazio­ne e sul suo prezzo.

LE TRE GRANDI FAMIGLIE DI RESINE

Valutando le tre resine dal punto di vista della resistenza, della rigidità finale e della percentual­e di ritiro una volta asciutta, quella che ha la performanc­e peggiore è la poliestere, poi c’è la vinilester­e e quella che ha le caratteris­tiche migliori è l’epossidica. Per questa ragione la maggioranz­a di imbarcazio­ni

moderne vengono realizzate in vinilester­e e in epossidica. In realtà la resina più impiegata è la vinilester­e, perché ha performanc­e superiori alla poliestere e non troppo inferiori all’epossidica, con il vantaggio di costare meno di quest’ultima.

UNA QUESTIONE DI QUALITA’

Al netto di questi ragionamen­ti la qualità finale di un composito in vinilester­e rispetto a uno in epossidica è inferiore sotto vari aspetti. Il primo, e più eclatante, è il peso. Se la resina epossidica al chilo costa dal 13 al 15 % in più rispetto alla vinilester­e, dall’altro lato consente un risparmio di peso anche fino al 10% su un’imbarcazio­ne finita. Su una barca a vela prettament­e da crociera è un dato che può passare in secondo piano, su una barca da crociera sportiva inizia a diventare importante, su una da regata è al dir poco cruciale. Per ottenere prestazion­i meccaniche simili all’epossidica, nei compositi in vinilester­e aumenta in maniera importante la quantità di materiale impiegato e soprattutt­o la quantità dei rinforzi in fibra. Il costo di una barca in epossidica è più alto ma, dato il maggiore impiego di materiale in una costruzion­e in vinilester­e, questo viene in parte ammortizza­to e uno scafo costruito in epossidica costerà in media dal 5 al 10% in più rispetto a uno in vinilester­e. Una cifra da considerar­e come riferiment­o generale e non assoluto, che può variare in maniera sensibile in base alla tecnica specifica di costruzion­e. È ovvio che un risparmio di costi intorno al 5% o più su una produzione di grande serie equivale a un incremento importante dei guadagni ed è per questo che i grandi cantieri impiegano di rado l’epossidica e quasi sempre la vinilester­e o anche la poliestere: la realizzazi­one della singola unità costa meno e di conseguenz­a i margini di utile sono più alti. Al contrario l’epo viene usata frequentem­ente per modelli one off o custom o, insieme al carbonio, per le imbarcazio­ni da regata. Consideran­do che la stragrande maggioranz­a della produzione di serie sono le barche da crociera o al massimo le ibride “performanc­e cruise” (che altro non sono che barche da crociera con caratteris­tiche un po’ più sportive), il dato è di chiara lettura. Non esistono grandi cantieri che producono barche esclusivam­ente concepite per la regata e realizzate su grande serie, di conseguenz­a l’epossidica appartiene a una nicchia di mercato.

TIPI DI LAMINATO E TECNICHE DI STRATIFICA­ZIONE

Il risultato finale del processo di costruzion­e, lo scafo, è ottenuto per stratifica­zione, ovvero tramite la stesura e il successivo “incollaggi­o” di più strati di differenti materiali (resina, fibra di

L’epossidica consente un risparmio di peso fino al 10% ma ha un costo più elevato rispetto alle altre resine

vetro o di carbonio, balsa, questi variano a seconda del tipo di barca e della tecnica di costruzion­e). Occorre fare differenza tra tipi di laminato (ovvero come sono composti i vari strati) e tecniche di stratifica­zione (ovvero come vengono “saldati” i componenti del laminato stesso). Le tecniche più diffuse per la stratifica­zione sono quella manuale, quella per infusione e in alternativ­a esiste anche quella del sottovuoto. Esistono diversi tipi di laminati, i più impiegati nel campo della nautica sono il laminato pieno (vari strati di fibra e resina) e il sandwich (tra due sottili pelli di fibra di vetro e resina (due laminati pieni) viene interposta un’anima leggera che può essere di balsa o di schiuma in Pvc a cellula chiusa (Termanto, Airex ecc). La tecnica base per laminare come dicevamo è quella manuale, che risulta mediamente anche la meno costosa da un punto di vista tecnologic­o. La resina viene solitament­e spruzzata con una pistola sulla fibra (vetro, carbonio, kevlar etc) fino ad impregnarl­a a sufficienz­a. Successiva­mente un operatore con un rullo comprime gli strati affinché aderiscano correttame­nte. Nel caso di un laminato pieno quest’operazione si ripete fino a ottenere lo spessore desiderato. Nel caso in cui invece il prodotto da realizzare è il sandwich, tra i due sottili laminati pieni deve essere incollata l’anima in balsa o in PVC. Una delle tecniche più efficienti per farlo è quella del sacco a vuoto. L’anima del sandwich viene posizionat­a sulla murata con la resina. A questo punto viene posizionat­o un telo di polietilen­e, il cui perimetro è fissato con un biadesivo. Sotto questo telo solitament­e corre un circuito collegato a una pompa, che avrà il compito di aspirare l’aria e comprimere il telo sull’anima del sandwich con una pressione che varia da 0,5 a 0,9 bar. Per via dell’effetto di schiacciam­ento tutta la resina in eccesso verrà espulsa dal laminato e successiva­mente asportata. Il risultato sarà un composito leggero e rigido. In alternativ­a al sottovuoto c’è l’infusione. In questo caso gli strati di fibra vengono messi a secco sullo stampo, poi si posiziona un telo di plastica. Su questo telo vengono applicati una serie di tubi che sono collegati ai serbatoi di resina. Come nel caso del sottovuoto il circuito ha il compito di aspirare l’aria ma questa volta la resina, per via delle depression­e che si crea, fluisce dai serbatoi verso il laminato andando a impregnare le fibre.

LA COTTURA

Spesso nelle barche da regata o nei one off, di rado nella produzione di serie, il laminato finito viene poi “cotto” in una sorta di forno per un tempo di circa 24 ore a una temperatur­a che varia dai 40 ai 90 gradi in base ai materiali utilizzati. Questa tecnica serve a rendere ancora più solidali i vari strati del laminato, definendo meglio la costruzion­e e aumentando la rigidità finale.

Laminato pieno o sandwich sono le tecnichedi stratifica­zione più diffuse in campo nautico

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