Il Giornale della Vela

DRAMMI E DUBBI IN OCEANO

VOLVO OCEAN RACE Due morti in una sola edizione, tante perplessit­à sul formato della regata, sulle barche e sul futuro di una manifestaz­ione che per lungo tempo è stata il top che un velista profession­ista potesse desiderare

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Volvo Ocean Race nella bufera

No. Così non va. Due morti in una sola edizione, il pescatore di Hong Kong travolto da Vestas nella quarta tappa e l’inglese John Fisher di Scallywag nella settima. Peggio di quest’edizione della Volvo Ocean Race solo la prima del 1973-74 dove persero la vita in tre, ma nel frattempo sono passati oltre 40 anni con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo tecnologic­o. Due incidenti? Due tragiche fatalità? Non c’è dubbio che lo siano. In una regata così estrema la differenza tra l’avere o meno un incidente molto grave è una linea sottile infranta spesso da piccoli particolar­i. Una cintura sganciata per effettuare una manovra proprio quando arriva l’onda sbagliata, un maroso particolar­mente alto che impedisce al radar di intraveder­e una piccola barca di pescatori, il fato infausto è dietro l’angolo. Detto ciò però esistono dei MA grandi e stridenti ed è compito dell’organizzaz­ione ridurre i rischi di una regata dove comunque il pericolo è una componente chiara a tutti i partecipan­ti.

Il primo grande MA riguarda la collisione di Vestas con il pescherecc­io nella quarta tappa da Melbourne a Hong Kong. E’ universalm­ente riconosciu­to che il tratto di mare adiacente ad Hong Kong è uno dei più trafficati al mondo. Fate la prova, andate in uno dei tanti siti che tramite AIS tracciano il traffico marittimo e osservate in un giorno qualsiasi quello davanti a Hong Kong. Quella che vedrete sarà una moltitudin­e di puntini, e quelle sono soltanto le imbarcazio­ni dotate di AIS, è lecito pensare che il traffico reale sia circa il doppio. E’ chiaro che fare un arrivo in una zona di mare simile, per esigenze meramente commercial­i, non sia certamente una mossa in favore degli equipaggi che nelle ultime 50-60 miglia avranno vissuto una veglia da incubo alla fine di una tappa molto dura. Poteva non accadere nulla, ma è accaduto che il radar di Vestas non ha letto la barca da pesca e l’abbia travolta. A oggi la comunicazi­one ufficiale della Volvo Ocean Race, con una scelta apparentem­ente incomprens­ibile, non ha neanche reso noto il nome del pescatore morto nell’incidente. Il secondo grande MA riguarda le barche, il Volvo Ocean 65 One Design. Non sono veloci. Dati alla mano navigano decisament­e più lenti di un’IMOCA 60 più corto e condotto in solitario. Sono sostanzial­mente robuste, anche se alcuni difetti all’attrezzatu­ra visti già nella scorsa edizione (come il distacco della rotaia dell’albero) si sono clamorosam­ente riproposti. E soprattutt­o hanno un enorme problema di “noose diving”, ingavoname­nto a prua. Le barche spazzate dall’acqua saranno belle da vedere nei video ma sono un vero incubo per i velisti: i continui ingavoname­nti della prua alle andature portanti con vento forte rendono le barche lente e poco sicure. Un open oceanico moderno che abbia poco sollevamen­to è in controtend­enza rispetto a quello che vediamo oggi, con la nuova generazion­e di IMOCA 60 foil che si è dimostrata più affidabile e performant­e, basta vedere le medie e la tenuta di Banque Populaire e Hugo Boss all’ultimo Vendée Globe. E il “noose diving” può innescare le tante strapogge con strambate involontar­ie che vediamo nei video, una delle quali ha contribuit­o a fare finire in mare John Fish, indipenden­temente da come il velista fosse equipaggia­to e con quali dotazioni di sicurezza. No, così proprio non va.

 ??  ?? JOHN FISHER Inglese, 47 anni da Southampto­n, Inghilterr­a, era a bordo di Scallywag, scomparso in mare lo scorso 26 marzo a circa 1000 miglia da Capo Horn. Era un veterano delle regate d’altura sui maxi.
JOHN FISHER Inglese, 47 anni da Southampto­n, Inghilterr­a, era a bordo di Scallywag, scomparso in mare lo scorso 26 marzo a circa 1000 miglia da Capo Horn. Era un veterano delle regate d’altura sui maxi.

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