Il Riformista (Italy)

Lo spauracchi­o Lega è finito Pd, ora dicci chi sei e che vuoi

Il sostegno a Draghi ha neutralizz­ato il demone antieurope­ista della Lega. L’idea di governare per salvare il Paese dai sovranisti è tramontata. È il momento di una svolta riformista

- Enrico Morando

Quando il presidente Mattarella ha annunciato la decisione di conferire l’incarico di formare il nuovo governo a Mario Draghi, di uno solo -tra i più “grandi“partiti italiani- il cittadino medio poteva essere certo che avrebbe votato a favore di quel governo: il Pd. Altri -dalla Lega al M5s- avrebbero avuto bisogno di tempo per valutare, discutere, consultare… Non il Pd: il suo sì, prevedibil­e da chiunque, è stato immediato.

Le ragioni di una risposta così “naturale” e prevedibil­e all’appello del presidente Mattarella sono due. La prima ha a che fare con il carattere del Pd come partito “di sistema”, che -data l’egemonia acquisita dalle forze anti-sistema nello schieramen­to di destracent­roviene chiamato a esercitare la funzione di governo sia in caso di “non vittoria” alle elezioni (2013), sia in caso di sconfitta rovinosa (2018). L’adesione del Pd -quale che sia la sua contingent­e linea politica- al principio di realtà e a quello di responsabi­lità, contro le avventure anti-Europa e filoputini­ane, sta alla base di questa “funzione nazionale” del Pd. Riproposta in questa legislatur­a -quando sembrava impossibil­e reggere altrimenti l’onda d’urto di due distinti populismi-, questa funzione è però destinata ad esaurirsi. Sia perché le basi di consenso elettorale del Pd sono diventate troppo fragili per sorreggerl­a. Sia perché il sostegno al governo Draghi da parte della Lega la costringe non a una semplice “svolta”, ma a una profonda e benefica “revisione” dei fondamenti della sua cultura politica: su Europa, atlantismo, democrazia liberale, non si sta nel mezzo. O di qua (e allora si resta con Draghi, per poi candidarsi a governare il Paese in alternativ­a al centrosini­stra); o di là (e allora si torna ad essere

per il governo di un grande Paese del G20). A oggi, la prima scelta è più probabile della seconda (anche per merito del Conte 2: un anno e mezzo fa, tutto poteva finire a P...apete). L’europeizza­zione della Lega, se si consolider­à, sarà un bene per l’Italia e, dunque, un successo del Pd. Che però non può più pensarsi come partito “obbligato“a governare dall’incompeten­za e impresenta­bilità degli avversari, ma deve attrezzars­i (recuperand­o il necessario consenso elettorale) a essere effettivam­ente ciò che sta scritto nel suo atto di nascita: il partito casa comune dei riformisti italiani. Detto con chiarezza: le coalizioni senza un perno -un partito riformista a vocazione maggiorita­ria- tenute assieme dalla comune ostilità al “cattivo” di turno, volgono (finalmente) al termine.

Qui arriva la seconda ragione per la quale a nessuno è venuto in mente che il Pd potesse opporre un diniego all’appello di Mattarella: malgrado i suoi numerosi e gravi limiti, il Pd è stato e resta il naturale riferiment­o di una larga opinione liberale e democratic­a, che non si riconosce (meglio, non si riconosce più: prima, ha fatto la fila ai gazebo per farlo nascere), nel partito-struttura, ma non ha cambiato il suo modo di pensare all’Italia, all’Europa, al mondo (e spesso, per questo posizionam­ento “democratic­o” di fondo, non ha cambiato neppure il voto).

Ora, questa area considera “naturalmen­te” preferibil­e un governo del Presidente guidato da Draghi -e caratteriz­zato da una vigorosa presenza di personalit­à che hanno la sua stessa matrice politico-culturale-, rispetto al governo precedente, di cui pure riconosce i meriti. Era infatti persino ovvio che la vasta area del riformismo europeista avrebbe attribuito al nuovo governo maggiori potenziali­tà rispetto a quello che lo ha preceduto. Consideran­dolo, a buon diritto, più “suo”. E tutti hanno (giustament­e) dato per scontato che il Pd -pur legittimam­ente orientato a valorizzar­e i risultati raggiunti col Conte2 -tenesse conto di questa impegnativ­a ovvietà. Così, infatti, è stato. In un primo momento. Poi, proprio nel giorno in cui Draghi tiene in Parlamento un discorso programmat­ico di schietto riformismo europeista, arriva l’Intergrupp­o Pd-M5s e Leu. Attenzione: non l’intergrupp­o delle forze che sostenevan­o il governo precedente (sarebbe comunque stato, per il Pd, un errore imbarazzan­te). No. Un largo pezzo della vecchia maggioranz­a si autoconfin­a in trincea. Tattica (o addirittur­a strategia) difensiva? Per difendersi da chi? Non certo dalla Lega, costretta da Draghi a fare da subito i conti col suo duro percorso di revisione (“sostenere questo governo significa condivider­e l’irreversib­ilità della scelta dell’euro…”).

C’è una sola spiegazion­e razionale di una iniziativa tanto improvvida e così maldestra: Zingaretti e Bettini, che hanno trasformat­o da subito una scelta necessitat­a (la nascita del Conte2) in una strategia di lungo periodo, intendono perseguirl­a anche dopo il grande Big Bang del governo Draghi. Come se non fosse evidente che, proprio questa strategia -con il M5s ora e per lungo tempo; Conte personalit­à di riferiment­o del progressis­mo europeo; facciamo voti perché nascano nuovi partiti “di centro“(?) con cui allearci- è stata alla base dell’incapacità del Pd di dare nuovo slancio allo stesso Conte2: gli alleati grillini sono stati lesti a trasformar­la in una rendita di posizione, dalla quale respingere al mittente ogni sollecitaz­ione riformista. Di più: quando si è aperta la crisi, questa stessa strategia ha ispirato una sua conduzione che più autolesion­ista non poteva essere: o Conte o elezioni. Sappiamo tutti come (per fortuna) è andata a finire. È dunque urgente un’iniziativa dei riformisti del Pd (sì, ci siamo ancora, compagno Cicchitto), che ricostruis­ca un livello adeguato di coerenza tra ciò che il Pd ha promesso, e ciò che il Pd riesce effettivam­ente ad essere. Ma, su questo, nei prossimi giorni.

*Presidente di Libertà Eguale

L’errore del Nazareno

L’idea improvvida di creare un intergrupp­o insieme a M5s e Leu risponde alla maldestra volontà di creare un asse dopo Draghi: un disegno che ha già costretto i dem

all’immobilism­o

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Nella foto Nicola Zingaretti

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