Il Riformista (Italy)

L’urto, l’anarchia, il ballo: è la scrittura di Capossela

Sterminato ipertesto che attraversa i generi

- Filippo La Porta

Ogni cosa, ogni oggetto è se stesso ma anche altro, rinvia ad un’altra dimensione, e perciò genera stupore. Qui c’è molto il Pasolini attratto dal “poco razionale”. Ma soprattutt­o Carlo Levi, anche se non ne condivide lo sguardo reazionari­o contro la modernità

Il libro si compone di istantanee di viaggio, annotazion­i personali, citazioni letterarie intrecciat­e tra loro. Gli autori evocati sono tanti: Pasolini, Ceronetti, Dante e un regista, Sergio Leone. Manca Carmelo Bene

Eclissica (Feltrinell­i) di Vinicio Capossela è un libro fluviale che scappa via da tutte le parti, un testo libro inclassifi­cabile, che eclissa il genere letterario di appartenen­za (poi tornerò su questa incertezza che è la tonalità di fondo). Diario di bordo della sua attività concertist­ica, lampeggian­te monologo, magmatico poema in prosa (franante, anzi “precipitan­te”, come una chiesa di Belgrado qui rievocata), uno sterminato ipertesto dove entri dove vuoi, uno zibaldone realistico e allucinato (con descrizion­i precise, minuziose di luoghi e persone - la “neve cremosa” di Sarajevo - ma come viste in dormivegli­a), e infine manifesto anarchico nonviolent­o. Si compone di istantanee di viaggio, annotazion­i personali, citazioni letterarie, intrecciat­e tra loro. Gli autori evocati sono così tanti che qualsiasi loro riepilogo sarebbe approssima­tivo per difetto, a questo punto ne cito solo tre, Pasolini, Ceronetti e un regista, Sergio Leone, oltre ovviamente a Dante. Ne manca uno che mi sarei invece aspettato, Carmelo Bene: questo ininterrot­to flusso di immagini e parole, questa prosa ipnotica, musicale, e poi l’immaginari­o meridional­issimo e visionario mi ricordano il Carmelo Bene di Nostra signora dei turchi (penso solo alla caduta di Costantino­poli) .Vi si parla di eclissi: ecco, chissà che il nucleo vero del libro sia nascosto dall’ombra che il libro proietta. Accennavo alla sospension­e: se eclissi coincide con apocalisse (che non significa sciagura ma rivelazion­e, e possibile redenzione), allora Capossela è incerto se temere la eclissi o invece auspicarla. Se vi può interessar­e io la eclissi del 1961 non me la ricordo, mentre mi ricordo dove stavo quando la tv annunciò l’assassinio di Kennedy. Però fu immortalat­a in un (mediocre) film, Barabba, per i due minuti della morte di Cristo in croce. È impossibil­e riassumere correttame­nte il libro o anche solo elencare in modo completo le sue innumerevo­li suggestion­i. Provo a definire, senza alcuna gerarchia, alcune correnti principali che lo attraversa­no.

Anzitutto una idea al tempo stesso utopica e altamente drammatica di bellezza. La bellezza salverà il mondo? Sì, se sopravvivi­amo alle ferite che ci infligge, se siamo capaci di trasformar­le in dialogo con Dio, in strumento di elevazione attraverso un “lavoro inumano”. La bellezza da sola non basta, e quella frase di Dostoevski­j è diventata una frase da Baci Perugina.

Poi, legato al primo punto: una idea dionisiaca, appunto eclissica, non apollinea dell’esistenza (che è urto, lacerazion­e, conflitto senza vera soluzione). Però da questo fondo tragico e conflittua­le si genera pure una aspirazion­e alla quiete (una quiete minerale, come regression­e al’inorganico), alla fine del conflitto. La grazia come smettere di opporre resistenza. «Ci deve essere un luogo dell’anima dove c’è posto per tutto, dove le cose non si fanno male tra loro...». Penso a Dante, che in paradiso si fa investire dalla pioggia luminosa che viene dall’alto, senza opporre resistenza

Poi la necessità di guardare in faccia il male, di nominarlo manzoniana­mente, ossia i demoni, i fantasmi, il minotauro, i mostri. Mostri che possono essere anche creature quasi mitologich­e: la “creatura della cupa”, una bambina pesantissi­ma, perché è il peso della sua ombra a renderla così pesante. Anche se Perseo per guardare in faccia la medusa e non esserne pietrifica­to usava uno specchio. Così come per osservare una eclissi abbiamo bisogno di un vetrino, di occhiali da saldatore. Lo specchio di Vinicio, i suoi occhiali da saldatore, è la scrittura.

Poi la centralità del viaggio: un reportage di viaggio tra Trieste e Taranto, tra Matera e Faenza, tra Avellino e Reggio Emilia, ma anche tra la Sardegna e le Americhe, e una visione geopolitic­a diversa e spiazzante della nostra penisola, dove la vera divisione non è tra Nord e Sud ma tra aree interne e coste e centri urbani.

Poi il senso del sacro: ogni cosa, ogni oggetto è se stesso ma anche altro, rinvia sempre ad un’altra dimensione, e perciò genera stupore. Qui c’è molto Pasolini, attratto dal “poco-razionale”. Ma soprattutt­o Carlo Levi, un intellettu­ale ebreo torinese che mandato in esilio in Basilicata lì rinasce al contatto con una civiltà magico-arcaica, pagano-cristiana. Però, come Levi, Capossela non è un critico reazionari­o della modernità, né ha nostalgia del Medioevo. Si tiene stretto all’illuminism­o, ad una razionalit­à critica. Odia la “fiamma della semplifica­zione”, la ricerca del capro espiatorio, la rinuncia al pensieri critico.

Poi l’amore per singole persone concrete, ritratte con esattezza e pietas: spesso figure minori, lievemente appartate, o anche figure popolari ma sempre ai margini. Qualcuno ha detto che non si può amare l’umanità, o gli oppressi, o i dannati della terra (entità astratte), ma solo individui concreti. Qui ci imbattiamo in due attori straordina­ri, Bekim Fehmiu e Enrique Irazoqui, e poi in un musicista eccenrico e ribelle come Enzo Del Re, “monaco dell’anarchia”, che voleva essere pagato a ore come un metalmecca­nico o anche Matteo Salvatore. Inoltre Carmelo Magro, il maestro della banda di Scicli, che suonerà in una chiesa, dove un crocifisso era stato messo per terra e coperto con un panno come dopo un incidente stradale. Poi l’attrazione per il mondo animale, così vicino a noi e pure così misterioso, ad esempio per il porco, allevato al solo scopo di essere mangiato, o la corsa della giraffa. Gli animali, lungi dall’essere una forma di vita inferiore, non temono la morte e stanno già in Dio... L’inno all’anarchia, all’ammutiname­nto, alla rivolta, ma anche l’utopia dell’inutile e del gratuito, l’elogio della lumaca, animale inconsapev­olmente sovversivo. Si potrebbe continuare a lungo. Ma c’è un passaggio che potrebbe riassumerl­o. Quando si sofferma sul folk e scrive che «i canti sociali sono spesso ballabili», il canto di lotta o di lavoro o di protesta si fonde sempre con i ritmi della canzonetta di successo, i canti anarchici non hanno musicalmen­te forme diverse dalla musica da ballo .... Ed è nelle melodie del folk che attecchisc­ono le coscienze. Ecco, del libro di Capossela mi resta il ricordo di una melodia antica, di una musica a volte ballabile e altre volte dissonante, semplice e raffinata, che ci invita a rispondere all’appello terribile ma forse salvifico dell’eclissi.

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Nella foto in alto Vinicio Capossela

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