Una vita e altre notti
Sembra una partitura musicale, il romanzo di Rossotti, con l’indicazione in tre quarti: c’è il tempo della vita quotidiana, gli impegni in redazione, le cene fra colleghe...
“Ho scritto questo libro per il buio, che salva e protegge tutto quel che nascondiamo al giorno”. Stefania Rossotti lo mette nero su bianco ancor prima che il suo “Una vita e altre notti” (Barta Edizioni) abbia inizio, perché è in mezzo a questi estremi, il nero e il bianco, l’ombra e la luce, che deve agire la protagonista, voce narrante in azione fino a sera, con il suo lavoro, le amiche, le cene fuori, il traffico e la città, e poi come ieri e quanto domani, in caduta libera nei suoi pensieri, tutte le ansie e le inquietudini, appena è notte. Alle sue spalle, un passato che al buio torna e non la abbandona. Sembra una partitura musicale, il romanzo di Rossotti, con l’indicazione in tre quarti: c’è il tempo della vita quotidiana, gli impegni in redazione, le cene fra colleghe, la scelta improvvisa di licenziarsi, e il tempo dell’intimità, spaventosa perché legata a una ferita mai sanata, terrificante seppure familiare. Ogni segmento potrebbe poi essere ulteriormente diviso in altri gradi per accogliere quanto la protagonista dice di sé. Oppure omette. Fino alla confessione di ciò che è stata la sua adolescenza e la giovinezza accanto all’amica di sempre, Marta: una madre, a differenza sua. Una donna più sfacciata, determinata e ribelle di lei. Le due sono una il contraltare dell’altra. In mezzo a loro c’è la figlia di Marta, Lea, che ha subìto uno stupro e che porta in grembo le conseguenze di questa violenza.
Il buio della notte si diffonde lentamente nei giorni che verranno, fatti di irriducibili indecisioni, di paura e solitudine. Il legame fra le tre, tuttavia, ha la forza di brillare su ciò che resta oscuro: il modo in cui, fra i vari sbagli e i disaccordi, queste donne di età diversa tendono la rete di protezione che hanno costruito negli anni attorno a loro si tramuta in un orizzonte di luce. “Dunque riassumiamo: hai venticinque anni, non hai un lavoro. Sei incinta, incinta di uno stupro. Sai che dovresti denunciare, ma non lo farai. Vuoi avere il tuo bambino, ma non vuoi che tua madre lo sappia. Vuoi che io ti nasconda, ma tu e lei abitate a due isolati da qui. Vuoi che menta all’unica persona a cui ho sempre detto la verità. Vuoi che ti aiuti a diventare quella che io non ho saputo essere: una madre. Totale: sei pazza.” Di questi flussi interiori che puntellano le interazioni fra le tre, rimane quasi sempre una battuta da niente: si dice insomma per non dire, si sceglie l’omissione per rendere la verità più accettabile. La misura, non solo della triangolazione, ma anche del rapporto intimo della protagonista con un passato di abusi, è nel gioco di censure che a volte assumono la forma di una negazione necessaria, a volte si trasformano in fantasmi da cui è impossibile allontanarsi. Soprattutto di notte. Quando un giorno finisce e il buio scende sulla città, immancabile risuona il dialogo della protagonista con la propria angoscia, una lotta fra il tentativo di dire, anche in questo caso, e la tentazione di tacere per sempre, fra il dolore di ciò che è stato e il risveglio d’una parte infantile di sé che nega, scorda, rifiuta e, così facendo, si aggrappa solo ai dettagli: come l’odore della barba di quell’uomo che, da bambina, incombeva sulla pelle. Allora forse l’angoscia, da pungolo che obbliga a restare sveglia, può convertirsi in una strana alleata: è l’unica forma di memoria, nonostante sia sghemba e dolorosa, che permette a questa donna di non allontanarsi da ciò che inevitabilmente finirebbe per tornare e finirla. Una sentinella che impedisce al trauma di acuirsi in nevrosi. Proprio lei, la paura, nella chiave notturna che ha scelto per manifestarsi manifestando la presenza di un ricordo indelebile. Messa così, tutto sfuma in una levità che non nasconde certo il nodo di violenza, ma che riesce al contempo ad accendere nel buio un’insegna: quella di una possibile salvezza. Comprendersi per accettarsi è il primo passo che queste donne devono compiere verso il futuro, non senza paura, ma almeno senza l’incubo di averla a fianco nella notte.