Concorsi universitari meritocrazia o punteggiocrazia?
Oggi i giovani ricercatori vivono, parafrasando Ligabue, una vita da mediane Un sistema di indici apparentemente “oggettivi”
Nei prossimi mesi le università italiane saranno impegnate nella programmazione, un momento cruciale che definisce le carriere di chi è in servizio e realizza o meno le speranze di chi da anni ambisce alla carriera accademica. Ma è qualcosa di più importante, perché si tratta di decidere quali ambiti scientifici far crescere e che sfide scientifiche e didattiche le università italiane si stanno preparando ad affrontare. Non è un tema da poco, in tempi di intelligenza artificiale, il cui impatto sulla didattica e sulla ricerca sarà certamente enorme. Non lo è se si guarda alle tante sfide della transizione ecologica, della produzione primaria e, per andare in altri campi, a quelle legate ai difficili equilibri delle democrazie occidentali e ai temi, politici, culturali e antropologici che sottendono. Tutti temi che richiederanno giovani molto preparati, liberi di pensare e capaci di immaginare, di porsi domande adeguate e di costruire reti internazionali su cui basare lo sviluppo del pensiero umano, oltre che quello economico e sociale. È corretto affermare che il sistema universitario, con tutte le sue problematiche, è tra quelli che più lavora per i nostri giovani e per la costruzione del loro futuro, anche nel campo dell’occupazione stabile nel mondo della ricerca. Non parlo solo dell’ovvia funzione didattica, ma delle possibilità di lavoro che ogni anno si offrono ai più giovani, dal dottorato di ricerca che - seppur gravemente sottopagato - offre possibilità di lavoro e di formazione spesso di eccellenza, alle posizioni di ricercatore che comunque continuano a garantire una prospettiva importante per chi vuole perseguire questo meraviglioso cammino. Apparentemente, siamo di fronte a una crescita, senza precedenti, nelle competenze di chi si affaccia al mondo della ricerca. C’è stato un tempo, era il mio tempo, in cui affrontare un concorso di ricercatore non richiedeva neanche un decimo dei titoli oggi richiesti. Non che fosse facile, tutt’altro. Il concorso di ricercatore era uno dei più impegnativi in assoluto, tra due prove scritte e una orale, solo che i titoli di chi partecipava potevano essere, e spesso erano, tutti da costruire. Si premiavano le potenzialità di un giovane, piuttosto che una carriera già in parte fatta con anni, se non decenni, di precariato. Oggi i giovani ricercatori vivono, parafrasando Ligabue, una vita da mediane. Un sistema di indici apparentemente “oggettivi”, capaci, in teoria, di eliminare o di ridurre la discrezionalità delle scelte, soggettive, ma molto spesso azzeccate, dei “Baroni”. Il numero di pubblicazioni e delle relative citazioni e l’indice di Hirsch, sono i valori usati per quantificare la prolificità nel tempo e l’impatto numerico di un autore. Si potrebbe parlare di meritocrazia ma il fatto è che, fatta la legge e trovato l’inganno, siamo entrati nel magico mondo della punteggiocrazia, che è ben altra e poca cosa. Tutto il sistema si fonda su indici inventati e gestiti da un sistema privato, che altro non è che quello indicizzato delle multinazionali dell’editoria scientifica. Tompson Reuter e Elsevier sono proprietarie dell’ISI Web of Science e di Scopus, i database che ogni mattina il ricercatore controlla per conoscere la sua posizione, il suo ranking, come fosse lo specchio di Grimilde, la Regina-strega di Biancaneve. Il risultato è che non sempre vince chi gioca meglio o ha la migliore reputazione scientifica ma chi è più furbo a seguire le logiche commerciali delle case editrici ed abile a costruire strabilianti performance bibliometriche. È come se misurassimo la qualità di un film solo dal numero di spettatori o quella di un regista o di uno scrittore dal numero di libri pubblicati in un lasso di tempo ristretto. Con buona pace del “Settimo Sigillo” di Bergman o di Salinger e Tomasi di Lampedusa, che hanno fatto la storia praticamente con un solo romanzo. Da più parti, nel mondo delle società scientifiche si segnala il ricorso a politiche opportunistiche che premiano la quantità e la rapidità di pubblicazione, piuttosto che la qualità e la ponderatezza, lasciando fondamentalmente che sia la collocazione editoriale a pesare e tralasciando il fatto che la supposta qualità della rivista dipende solo da quanto sono citati i lavori che pubblica. Questo genera un vorticoso giro di interessi commerciali tra editore e ricercatori, pericoloso nel ledere quell’evento sacro per la ricerca, che è la revisione tra pari, la peer-review, diventata merce di scambio per pubblicare a basso costo. L’arrivo sul mercato editoriale delle riviste open access, i cui contenuti sono leggibili e scaricabili da tutti e gratuitamente, ha cambiato completamente le regole del gioco. Con il loro numero illimitato di articoli pubblicati in tempi immediati e la nefasta politica dei numeri speciali, i cosiddetti “special issues”, giocano in questo un ruolo essenziale, vorrei dire esiziale, nel definire la qualità complessiva dei lavori scientifici. In altre parole, se un tempo era premiata la ponderatezza, la certezza della replicabilità dei risultati, fedele al metodo galileiano, se occorrevano anni prima che un dato fosse consolidato e considerato degno di pubblicazione, oggi, al contrario, si premiano la velocità e la notorietà degli argomenti trattati, a scapito, a volte, della solidità dei dati e della sopravvivenza di linee di ricerca ritenute marginali, da quando l’editoria scientifica è divenuta un gigantesco business editoriale, basato su ricercatori che pagano per pubblicare e che fanno il lavoro di revisione gratuitamente. Una contraddizione fin troppo evidente. Per non parlare del fatto che non ci si cura più del fatto che, in tanti ambiti della scienza, per esempio quello delle scienze della vita e della terra, è diventato improponibile se non penalizzante pubblicare in italiano o su riviste Italiane non indicizzate. Fatto questo che rischia di incidere gravemente sulla fruizione del dato scientifico da parte del sistema economico di riferimento. Buona programmazione, quindi, sperando che si intervenga, politicamente, con norme capaci di frenare questa deriva della punteggiocrazia, capace, a volte, di generare mostri, solo apparentemente credibili.