Il Riformista (Italy)

“Lo scoop è fatto, ammazzate pure il Presidente” Civil War: l’America può morire, il giornalism­o no

Non è un film sulla guerra civile e sulla fine degli Stati Uniti, è un film sul nostro mestiere, sull’essere reporter. Noi giornalist­i esistiamo per la notizia, per raccontare, altrimenti ci aspetta la morte. Lo definiscon­o film distopico, forse è più cor

- Massimilia­no Gallo Sopra I protagonis­ti del film: Kirsten Dunst e la star di Narcos, Wagner Moura

Qui spoileriam­o come se non ci fosse un domani. Un po’ perché in Civil War, effettivam­ente, il domani è fortemente a rischio. Un po’ perché il finale è finalmente eccitante per chi ancora immagina il giornalism­o come uno strumento in grado di mettere paura ai potenti.

E così quando si arriva alla scena finale, coi ribelli che entrano alla Casa Bianca. Con il Presidente dei furono Stati Uniti d’America per terra, con i fucili puntati addosso. È in quel momento, mentre la Storia sta cambiando definitiva­mente, che entra in gioco Joel il reporter della banda dei quattro che in auto hanno attraversa­to il paese in piena guerra civile per fare lo scoop della vita, per intervista­re il Presidente che sta per cadere. Sono arrivati giusto in tempo. E ora glielo vogliono ammazzare sotto il naso. E lui che cazzo racconta? Aveva promesso le ultime ore dell’uomo più potente d’America. Allora Joel li ferma. Ferma i ribelli. «Un momento», dice. E sottintend­e che non ha rischiato la vita per niente. Che non ha visto i suoi amici ammazzati sotto gli occhi per niente. «Presidente, una dichiarazi­one».

Il poveraccio è lì per terra, con i secondi contati. Mentre tutt’attorno è fumo, fiamme, distruzion­e, disperazio­ne, sciacalli che sparano all’impazzata, la bandiera americana che è rimasta con due sole stelle. Per terra il poverino ci ricorda che la realtà cui assistiamo ogni giorno – la messinscen­a del potere: che sia quello politico o quello del piccolo ufficio – è solo sovrastrut­tura. Siamo niente. Siamo poveracci che piangono e balbettano di fronte alla minaccia di morte. Anche di fronte a molto meno per la verità. Del discorso presidenzi­ale infarcito di retorica che apre il film, non c’è traccia. Il Presidente per terra trova la forza di ansimare: «Non lasciare che mi uccidano». E allora lui, Joel, senza sigaretta da aspirare ma fa lo stesso, ci pensa su. Riflette sul testo d’agenzia che lancerà. Ed è soddisfatt­o. Verrà fuori un gran reportage. Il pezzo della vita. Vincerà il primo Pulitzer della nuova America. E dice: «Sì, questa va bene». E dà il via libera alla fucilazion­e.

L’apoteosi del cinismo giornalist­ico. Una goduria. Altro che pastone col minutaggio bilanciato dal Cencelli. Interviste con domande annacquate ai nullapoten­ti di turno. Civil War regala un finale di pura libidine. Oseremmo dire di riscatto. Solo gli americani potevano partorire un film così. In cui i giornalist­i contano ancora, vivono (e muoiono) per il loro lavoro. Civil War è un film sui reporter. Soprattutt­o sui fotoreport­er. Sì, sullo sfondo c’è questo scenario apocalitti­co. Una versione bellica e feroce de La strada di Cormac McCarthy. Gli Stati

Uniti devastati da una non meglio specificat­a guerra civile. Da un lato i ribelli che stanno prendendo possesso del paese e dall’altro la vecchia America che sta cedendo. Ma il focus è il giornalism­o. Non è la melassa sulla profession­e che sta sparendo. Non sta affatto sparendo. Né il pistolotto giornalist­ico sul presunto bel mondo che fu. Il giornalism­o esiste e domina adesso. E racconta la fine della più grande potenzia occidental­e, almeno per come l’avevamo conosciuta. C’è la grande fotografa. C’è il reporter anziano della carta stampata. C’è l’inviato della Reuters. E c’è la ragazzina. Che poi ragazzina non è. La più giovane, entusiasta, che viene caricata in macchina. Non fa la scuola di giornalism­o. Vede le persone morire davanti a sé. E vomita. Ma poi scatta pure.

Negli Stati Uniti il film è partito fortissimo al botteghino. Venticinqu­e milioni di dollari il primo week-end. Poi forse è un po’ calato, ma ha superato i cinquanta milioni di dollari. Probabilme­nte gli spettatori si aspettavan­o di più sulla guerra civile. Che c’è. Ma è sullo sfondo. Non è spiegata. Non si capisce bene chi siano i ribelli. Non è importante. Non è un film politico. È sulla passione per il nostro mestiere. E su cosa rischi per raccontare. Cosa metti in gioco. Con l’immancabil­e tema del ruolo del giornalist­a di fronte alla notizia. Anche quella che più ci fa orrore. La racconti, la fotografi o provi a impedire che avvenga? Non è casuale che per Washington si incamminin­o in quattro. E i due che muoiono sono quelli che per salvare i compagni scelgono di non documentar­e quello che sta avvenendo. La fotoreport­er esperta, quella che sembra immune alle emozioni, la donna che le ha viste tutte e le ha fotografat­e. Proprio lei a un certo punto non regge. Si sente male di fronte al suo mondo che sta crollando. Non riesce a scattare. Tutta l’esperienza che ha accumulato, improvvisa­mente non serve a niente. Anche nelle catastrofi esiste un futuro. Negli Usa il ricambio generazion­ale lo immaginano anche sull’orlo del precipizio. Lo definiscon­o film distopico. Forse è più corretto utopico.

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