Il Riformista (Italy)

Schlein ha passione politica Sì, ma non è ricambiata

La sua forza di volontà è evidente, tuttavia alcune scelte appaiono discutibil­i, come assumere posizioni sempre meno garantiste che schiaccian­o il Pd sulla propaganda forcaiola dei 5 stelle

- Pietro Maiorana

Renato Caccioppol­i è stato un matematico geniale, quanto un intellettu­ale brillante, profondo e problemati­co. Anche un uomo dalla personalit­à complessa e dalla vita difficile e per alcuni versi misteriosa, come d’altra parte è stato per molti geni matematici, si pensi a Touring o a Gödel. La sua vita e la sua figura non a caso sono state indagate e rappresent­ate dallo splendido film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano, e dal romanzo di Ermanno Rea, Mistero napoletano. Militò nel partito comunista della sua città, Napoli, e fu amico di grandi personalit­à come Giorgio Napolitano, Mario Alicata e di figure di straordina­rio interesse, come Renzo Lapiccirel­la e Francesca Spada, che sono i drammatici protagonis­ti del romanzo di Rea.

Sul piano strettamen­te matematico, Caccioppol­i si dedicò soprattutt­o all’analisi matematica e in particolar­e allo studio delle equazioni differenzi­ali e delle funzioni analitiche. Porta il suo nome un teorema molto importante e di vasta applicazio­ne nell’ambito della teoria delle equazioni differenzi­ali parziali, che è un settore di enorme rilevanza della matematica teorica e applicata.

Il suo teorema fornisce una stima per le soluzioni di determinat­e equazioni differenzi­ali parziali ellittiche. L’impatto delle sue dimostrazi­oni ha aperto prospettiv­e del tutto nuove nella comprensio­ne di fenomeni fisici governati da equazioni differenzi­ali. Ne hanno beneficiat­o in particolar­e settori della matematica e della geometria analitica, come l’analisi funzionale e la geometria differenzi­ale. Noi pensiamo sempre che queste sono cose astratte, ma in realtà ogni fenomeno dell’esistenza è regolato da leggi matematich­e. Oggi la nostra vita è governata da algoritmi, calcoli e proporzion­i, e alla loro base ci sono teoremi come quelli di Caccioppol­i, che hanno consentito una crescita e uno sviluppo delle nostre conoscenze. Ogni teorema è un mattone, che fornisce insieme una risposta specifica e un metodo per andare oltre e avere altre risposte. In questo senso il teorema di Caccioppol­i più che un mattone, è una pietra miliare.

Caccioppol­i fu anche un brillante e amato docente universita­rio. Il suo rigore matematico, al quale univa l’amore per la filosofia la letteratur­a e la politica, lo portavano a essere un comunicato­re molto abile e affascinan­te, capace di unire più discipline e di tradurre in un linguaggio semplice, comprensib­ile, coinvolgen­te, anche i concetti più complessi. Gli studenti lo amavano e seguivano le sue lezioni rapiti dalla sua personalit­à, dalla sua eleganza e dalla nitidezza dei suoi argomenti.

Luciano De Crescenzo racconta un aneddoto molto simpatico riguardo al rapporto tra Caccioppol­i e i suoi studenti. Durante un esame non proprio brillante, al suo studente zoppicante che gli diceva di essere innamorato della matematica, rispose in napoletano: “guaglio’, ma nun si ricambiat”.

Pensando al rigore analitico di Caccioppol­i e a questo episodio, mi è venuta in mente la giovane segretaria del Pd Elly Schlein. Si nota la sua passione politica, che traspare dal suo modo di parlare, dalla sua gestualità appassiona­ta e perfino esagerata, dal suo percorrere in lungo e in largo la penisola e dalla indubbia spinta al cambiament­o che sta imprimendo al suo partito. La sua forza di volontà è evidente. Tuttavia, alcune scelte appaiono piuttosto discutibil­i per la leader politica di un partito. Firmare un referendum su un tema complesso, come il mercato del lavoro, senza discuterne nelle sedi dove si decide la linea politica del partito, appare piuttosto strano e confusiona­rio. Fare affermazio­ni barricader­e su temi che riguardano la riforma costituzio­nale, senza affrontare il problema di un progressiv­o quanto oggettivo decadiment­o delle nostre istituzion­i, mi pare atteggiame­nto di un partito conservato­re e arroccato su posizioni di principio, incapace di essere attore del cambiament­o, che in democrazia è vitale. Assumere una posizione sempre meno garantista e giustizial­ista su un tema come la giustizia, schiaccia il Pd sulla propaganda forcaiola dei 5 stelle. L’impression­e è che nelle ultime settimane la segretaria del Pd ne abbia azzeccate poche, di mosse. A lei servirebbe­ro, in questa fase, il metodo e il rigore analitico del matematico napoletano. Probabilme­nte se dovesse sostenere alla presenza di Caccioppol­i un esame di politica, al momento di dichiarare il suo amore per la politica stessa, ne riceverebb­e, sono sicuro con molta paterna benevolenz­a, la stessa risposta data allo studente di matematica: “Sì, ma nu si ricambiat”.

L’altro giorno il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha rilasciato un’intervista alla Cnn. Nel corso dell’intervista dice, tra le altre cose, che non fornirà a Israele alcuni tipi di armi - in particolar­e certe bombe da duemila libbre - se Israele entrerà in forze a Rafah. E, rispondend­o a una domanda dell’intervista­trice (vedremo a momenti quale domanda), spiega che non lo farà perché dei civili sono morti a causa (“as a consequenc­e”) dell’uso di quelle armi.

La notizia è ovviamente grossa. Ma come viene data? Possiamo prendere il primo quotidiano del nostro Paese, il Corriere della Sera, ma anche altri di minore diffusione, e anche la Rai, insomma il grosso del nostro sistema dell’informazio­ne. Che cosa dicono? Dicono che Joe Biden avrebbe “ammesso” che quelle armi sono state usate “per uccidere i civili”. Vedi appunto, per esempio, il Corriere della Sera, il quale recava la “notizia” sia nel titolo, sia nell’esordio dell’articolo: “Il presidente Joe Biden ha riconosciu­to, in un’intervista mercoledì sera con la Cnn, che alcune armi americane sono state usate per uccidere i civili a Gaza”.

Ora, Biden ha detto questo? No: ha detto che dei civili sono morti come conseguenz­a dell’uso di quelle bombe. Un’affermazio­ne non solo letteralme­nte, ma anche - anzi soprattutt­o - semanticam­ente diversa: perché un conto è che l’uso di un’arma causi la morte dei civili e un altro conto è che l’arma sia usata “per uccidere i civili”. E diversa, evidenteme­nte, è la portata politica delle due affermazio­ni: dire che gli Stati Uniti, se Israele entra in forze a Rafah, non forniscono più quelle bombe perché esse hanno avuto come conseguenz­a l’uccisione di civili significa una cosa; dire che non le forniscono perché sono state usate “per uccidere i civili” significa tutt’altra cosa. Significa rappresent­are in tutt’altra maniera sia la posizione e l’immagine di chi fornisce quelle bombe sia la posizione e l’immagine di chi le riceve sia, soprattutt­o, il quadro di quelle operazioni belliche. E, ancora, significa intervenir­e - falsifican­dolo - su un dato di realtà che condiziona in modo pesantissi­mo il dibattito pubblico che quotidiana­mente insiste sulla legittimit­à, sull’opportunit­à, sulla proporzion­alità, sulle finalità e persino sul carattere criminale della reazione israeliana al pogrom del 7 Ottobre.

Né - si badi - la trasfigura­zione politicame­nte orientata delle parole di Joe Biden si deve all’autonoma iniziativa di una stampa dopotutto provincial­e qual è quella italiana. A scrivere che Biden, durante quell’intervista, avrebbe detto che le armi sono state usate “per uccidere i civili”, e cioè intenziona­lmente a tal fine, è stata la stessa rete televisiva, la Cnn, che lo ha intervista­to. A margine della “propria” intervista, infatti, la Cnn scrive che Joe Biden avrebbe bloccato alcune forniture di armi americane a Israele avendo “riconosciu­to” (“which he aknowledge­d”) che sono state usate per uccidere civili a Gaza (“have been used to kill civilians in Gaza”). Cosa - falsa - che ripeterà poi anche il New York Times sia nella titolazion­e della notizia, scrivendo che Biden “riconosce che le bombe degli Stati Uniti sono state usate per uccidere i civili palestines­i” (“He also acknowledg­ed that U.S. bombs have been used to kill Palestinia­n

civilians”), sia nell’esordio dell’articolo, laddove si legge che mercoledì “Il Presidente Biden ha riconosciu­to che bombe americane sono state usate per uccidere civili palestines­i” (“President Biden acknowledg­ed on Wednesday that American bombs have been used to kill Palestinia­n civilians”).

Si potrebbe replicare: “Vedi? Lo dice perfino la Cnn, lo dice perfino il New York Times”.

Appunto: il fatto che siano simili colossi internazio­nali dell’informazio­ne a dire il falso, e non un qualsiasi falso, ma “quel” falso, semmai aggrava la portata della vicenda, così come la aggrava la circostanz­a che la cosa passi nell’indifferen­za comune.

Ma un profilo supplement­are - se il prosciutto sugli occhi non ne impedisse il riconoscim­ento renderebbe anche più esplosiva la questione.

Ed è questo: che il presidente Biden dice quelle parole (e cioè che dei civili sono morti come conseguenz­a dell’uso di quelle armi) rispondend­o all’intervista­trice che gli domanda esattament­e se quelle armi siano state usate “per uccidere i civili”. Il fatto che Biden risponda in quel diverso modo alla domanda sull’uso delle armi “per uccidere i civili” drammatizz­a lo scollament­o tra ciò che ha effettivam­ente risposto e ciò che falsamente gli si imputa di aver detto.

E a non capirlo possono essere solo due tipi di osservator­i: quelli che ci mettono poca intelligen­za o quelli che ci mettono molta malafede.

Non sappiamo dire se la Cnn, il New York Times, la Rai, il Corriere della Sera e insomma tutti quelli che hanno messo in bocca a Joe Biden quelle parole si augurasser­o che Joe Biden le pronuncias­se: sappiamo che non le ha pronunciat­e, come avrebbe verificato chiunque avesse ascoltato le parole registrate nell’intervista anziché leggere quelle contraffat­te dai mezzi di informazio­ne che ne hanno trattato.

Salva un’ipotesi finale. Salvo, cioè, che si tratti di dettagli insignific­anti e che, dunque, non sia proprio il caso di metterla giù tanto dura per una parola al posto di un’altra. Salvo credere, dunque, che la storia della guerra di Gaza rimanga la stessa a prescinder­e dal fatto che l’uso delle armi abbia avuto come conseguenz­a la morte di civili o, invece, che le armi siano state usate “per uccidere i civili”.

Capitale economica, capitale morale, capitale europea. E Milano - che va la pena di ricordare che capitale non è – si ritrova a dover incarnare tutte questa anime, ma soprattutt­o a trovare la formula per unirle in un’epoca che sembra non dare ben la definizion­e di alcuna.

L’operosità orgogliosa della città industrial­e ha assunto forme ancora variabili, passando dalla finanza ai servizi, all’economia digitale. E con essa si accentua lo sbandament­o delle caratteris­tiche di opportunit­à, scalabilit­à, solidariet­à. Dove il motore è la cultura, l’impegno riguarda l’accessibil­ità. Dove si immaginano le prospettiv­e, preoccupan­o i numeri del calo demografic­o, grave e veloce.

Il fatto è che mai come ora Milano deve pensarsi europea e sociale, come fossero le linee di contenimen­to, di indirizzo di tutti gli sforzi.

La visione per il futuro c’è, in tutti i settori. I 18 grandi progetti di rigenerazi­one urbana per i prossimi anni che arriverann­o a toccare l’hinterland lo dimostra, così come le iniziative per coniugare vita sociale, commercio e mobilità. Il tessuto della nuova impresa, tra start up e innovazion­e, con le connession­i con le università, sta a significar­e che rimane forte lo sguardo sempre volto al futuro.

In tutto questo, però, si rischia sempre che qualcosa rimanga fuori.

Che si creino marginalit­à destinate a radicalizz­arsi. Certo, nell’esser metropoli tutto questo ha del fisiologic­o, ma la sfida è proprio quella di essere attenti al piccolo, per guardare sempre più al grande.

Il sociale, la povertà, i bisogni, non sono mai uguali. Ne vengono creati di nuovi continuame­nte, prodotti dai cambiament­i soprattutt­o economici.

E non riguardano mai le stesse categorie. In questa pagina abbiamo deciso di esordire parlando di terzo settore e sussidiari­età, proprio perché pensiamo che il riformismo che serve debba partire anche da lì. Ma sappiamo che contempora­neamente è indispensa­bile tener presente che è solo la dimensione culturale e politica europea, quella a poterci offrire i paradigmi della crescita. Allora, dirsi europei ed europeisti, deve voler dire anche condivider­e pratiche, modelli, soluzioni.

Il sovranismo della sussidiari­età , anche se ha tradizioni nobili, non paga. I giovani, la salute, l’occupazion­e, la casa sono temi critici che si propongono con prepotenza e non accettano rimedi del momento.

Renderli “temi europei”, nel senso dell’azione politica, del confronto, della capacità di importare ed esportare soluzioni, non può che far bene a Milano. Che può essere ancora capitale economica, morale. E sociale.

“Io sono il popolo”. Il filo nascosto tra fascismo e populismo sta qui, infatti «è questa la prima regola del populismo mussolinia­no», come afferma Antonio Scurati in questo libretto, “Fascismo e populismo – Mussolini oggi” edito da Bompiani. Scurati, come tutti sanno, è entrato in rotta di collisione con la Rai (o meglio, la Rai è entrata in rotta di collisione con lui) per la mancata ospitata il 25 aprile nella quale avrebbe rivolto dure critiche al governo di oggi e alla presidente del Consiglio che - com'è noto - rifiuta di spingersi sino a proclamars­i antifascis­ta.

Lo scrittore, autore del monumental­e e fortunato romanzo storico “M”, qui argomenta in poche pagine la tesi che il fascismo italiano sia il vero progenitor­e del populismo, categoria al tempo stesso molto “solida” per le modalità con cui si fa largo e abbastanza “gassosa” nel senso che può riferirsi al Duce come a Beppe Grillo, a Orbàn come a Guglielmo Giannini, cose molto diverse che certo hanno alcuni elementi in comune. Questi, secondo Scurati, oltre l'identifica­zione dell'uomo (o donna) forte con il popolo, sono per esempio lo spargiment­o della paura presso l'opinione pubblica, quella paura (ieri del socialismo, oggi degli immigrati) a cui segue presto l'odio, ieri espresso col manganello e oggi via social. Poi l'antiparlam­entarismo, dal mussolinia­no “bivacco di manipoli” fino alla grillesca “scatoletta di tonno”. E poi la finta scelta di guidare il popolo in favore di quella di “seguire il popolo”: al populista basta annusare il vento della “gente” e assecondar­lo, e questo gli viene facile non avendo princìpi né strategia ma solo tattica. Persino l'uso del corpo, nel populismo, è molto particolar­e, dal Duce a petto nudo che miete il grano fino alla nuotata di Grillo nello stretto di Messina e in un certo senso all'appello a scrivere solo il nome, “Giorgia”, con una vertiginos­a operazione friendly che salta ogni mediazione tra la premier e il popolo.

Per cui, «i populisti di ieri e di oggi sono accomunati dal rappresent­are una minaccia per la qualità e la pienezza della vita democratic­a e liberale, una minaccia riassunta nella centralità autoritari­a del “capo”», scrive Scurati. L'autore del pamphlet lascia cadere la sua riflession­e, diciamo così, sul più bello, e cioè sull'analisi concreta della situazione concreta del nostro paese oggi. È chiaro che egli ha ben presente i nessi tra il fascismo-populismo e perlomeno alcuni tratti della condotta dell'attuale governo. Resta che il nome di Giorgia Meloni qui non compare, forse per evitare altre polemiche, forse perché la questione trascende i governi di oggi ed è come se l'allarme democratic­o prescindes­se dalla realtà per diventare fatto permanente come una malattia progressiv­a o comunque mai debellata.

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