Schlein ha passione politica Sì, ma non è ricambiata
La sua forza di volontà è evidente, tuttavia alcune scelte appaiono discutibili, come assumere posizioni sempre meno garantiste che schiacciano il Pd sulla propaganda forcaiola dei 5 stelle
Renato Caccioppoli è stato un matematico geniale, quanto un intellettuale brillante, profondo e problematico. Anche un uomo dalla personalità complessa e dalla vita difficile e per alcuni versi misteriosa, come d’altra parte è stato per molti geni matematici, si pensi a Touring o a Gödel. La sua vita e la sua figura non a caso sono state indagate e rappresentate dallo splendido film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano, e dal romanzo di Ermanno Rea, Mistero napoletano. Militò nel partito comunista della sua città, Napoli, e fu amico di grandi personalità come Giorgio Napolitano, Mario Alicata e di figure di straordinario interesse, come Renzo Lapiccirella e Francesca Spada, che sono i drammatici protagonisti del romanzo di Rea.
Sul piano strettamente matematico, Caccioppoli si dedicò soprattutto all’analisi matematica e in particolare allo studio delle equazioni differenziali e delle funzioni analitiche. Porta il suo nome un teorema molto importante e di vasta applicazione nell’ambito della teoria delle equazioni differenziali parziali, che è un settore di enorme rilevanza della matematica teorica e applicata.
Il suo teorema fornisce una stima per le soluzioni di determinate equazioni differenziali parziali ellittiche. L’impatto delle sue dimostrazioni ha aperto prospettive del tutto nuove nella comprensione di fenomeni fisici governati da equazioni differenziali. Ne hanno beneficiato in particolare settori della matematica e della geometria analitica, come l’analisi funzionale e la geometria differenziale. Noi pensiamo sempre che queste sono cose astratte, ma in realtà ogni fenomeno dell’esistenza è regolato da leggi matematiche. Oggi la nostra vita è governata da algoritmi, calcoli e proporzioni, e alla loro base ci sono teoremi come quelli di Caccioppoli, che hanno consentito una crescita e uno sviluppo delle nostre conoscenze. Ogni teorema è un mattone, che fornisce insieme una risposta specifica e un metodo per andare oltre e avere altre risposte. In questo senso il teorema di Caccioppoli più che un mattone, è una pietra miliare.
Caccioppoli fu anche un brillante e amato docente universitario. Il suo rigore matematico, al quale univa l’amore per la filosofia la letteratura e la politica, lo portavano a essere un comunicatore molto abile e affascinante, capace di unire più discipline e di tradurre in un linguaggio semplice, comprensibile, coinvolgente, anche i concetti più complessi. Gli studenti lo amavano e seguivano le sue lezioni rapiti dalla sua personalità, dalla sua eleganza e dalla nitidezza dei suoi argomenti.
Luciano De Crescenzo racconta un aneddoto molto simpatico riguardo al rapporto tra Caccioppoli e i suoi studenti. Durante un esame non proprio brillante, al suo studente zoppicante che gli diceva di essere innamorato della matematica, rispose in napoletano: “guaglio’, ma nun si ricambiat”.
Pensando al rigore analitico di Caccioppoli e a questo episodio, mi è venuta in mente la giovane segretaria del Pd Elly Schlein. Si nota la sua passione politica, che traspare dal suo modo di parlare, dalla sua gestualità appassionata e perfino esagerata, dal suo percorrere in lungo e in largo la penisola e dalla indubbia spinta al cambiamento che sta imprimendo al suo partito. La sua forza di volontà è evidente. Tuttavia, alcune scelte appaiono piuttosto discutibili per la leader politica di un partito. Firmare un referendum su un tema complesso, come il mercato del lavoro, senza discuterne nelle sedi dove si decide la linea politica del partito, appare piuttosto strano e confusionario. Fare affermazioni barricadere su temi che riguardano la riforma costituzionale, senza affrontare il problema di un progressivo quanto oggettivo decadimento delle nostre istituzioni, mi pare atteggiamento di un partito conservatore e arroccato su posizioni di principio, incapace di essere attore del cambiamento, che in democrazia è vitale. Assumere una posizione sempre meno garantista e giustizialista su un tema come la giustizia, schiaccia il Pd sulla propaganda forcaiola dei 5 stelle. L’impressione è che nelle ultime settimane la segretaria del Pd ne abbia azzeccate poche, di mosse. A lei servirebbero, in questa fase, il metodo e il rigore analitico del matematico napoletano. Probabilmente se dovesse sostenere alla presenza di Caccioppoli un esame di politica, al momento di dichiarare il suo amore per la politica stessa, ne riceverebbe, sono sicuro con molta paterna benevolenza, la stessa risposta data allo studente di matematica: “Sì, ma nu si ricambiat”.
L’altro giorno il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha rilasciato un’intervista alla Cnn. Nel corso dell’intervista dice, tra le altre cose, che non fornirà a Israele alcuni tipi di armi - in particolare certe bombe da duemila libbre - se Israele entrerà in forze a Rafah. E, rispondendo a una domanda dell’intervistatrice (vedremo a momenti quale domanda), spiega che non lo farà perché dei civili sono morti a causa (“as a consequence”) dell’uso di quelle armi.
La notizia è ovviamente grossa. Ma come viene data? Possiamo prendere il primo quotidiano del nostro Paese, il Corriere della Sera, ma anche altri di minore diffusione, e anche la Rai, insomma il grosso del nostro sistema dell’informazione. Che cosa dicono? Dicono che Joe Biden avrebbe “ammesso” che quelle armi sono state usate “per uccidere i civili”. Vedi appunto, per esempio, il Corriere della Sera, il quale recava la “notizia” sia nel titolo, sia nell’esordio dell’articolo: “Il presidente Joe Biden ha riconosciuto, in un’intervista mercoledì sera con la Cnn, che alcune armi americane sono state usate per uccidere i civili a Gaza”.
Ora, Biden ha detto questo? No: ha detto che dei civili sono morti come conseguenza dell’uso di quelle bombe. Un’affermazione non solo letteralmente, ma anche - anzi soprattutto - semanticamente diversa: perché un conto è che l’uso di un’arma causi la morte dei civili e un altro conto è che l’arma sia usata “per uccidere i civili”. E diversa, evidentemente, è la portata politica delle due affermazioni: dire che gli Stati Uniti, se Israele entra in forze a Rafah, non forniscono più quelle bombe perché esse hanno avuto come conseguenza l’uccisione di civili significa una cosa; dire che non le forniscono perché sono state usate “per uccidere i civili” significa tutt’altra cosa. Significa rappresentare in tutt’altra maniera sia la posizione e l’immagine di chi fornisce quelle bombe sia la posizione e l’immagine di chi le riceve sia, soprattutto, il quadro di quelle operazioni belliche. E, ancora, significa intervenire - falsificandolo - su un dato di realtà che condiziona in modo pesantissimo il dibattito pubblico che quotidianamente insiste sulla legittimità, sull’opportunità, sulla proporzionalità, sulle finalità e persino sul carattere criminale della reazione israeliana al pogrom del 7 Ottobre.
Né - si badi - la trasfigurazione politicamente orientata delle parole di Joe Biden si deve all’autonoma iniziativa di una stampa dopotutto provinciale qual è quella italiana. A scrivere che Biden, durante quell’intervista, avrebbe detto che le armi sono state usate “per uccidere i civili”, e cioè intenzionalmente a tal fine, è stata la stessa rete televisiva, la Cnn, che lo ha intervistato. A margine della “propria” intervista, infatti, la Cnn scrive che Joe Biden avrebbe bloccato alcune forniture di armi americane a Israele avendo “riconosciuto” (“which he aknowledged”) che sono state usate per uccidere civili a Gaza (“have been used to kill civilians in Gaza”). Cosa - falsa - che ripeterà poi anche il New York Times sia nella titolazione della notizia, scrivendo che Biden “riconosce che le bombe degli Stati Uniti sono state usate per uccidere i civili palestinesi” (“He also acknowledged that U.S. bombs have been used to kill Palestinian
civilians”), sia nell’esordio dell’articolo, laddove si legge che mercoledì “Il Presidente Biden ha riconosciuto che bombe americane sono state usate per uccidere civili palestinesi” (“President Biden acknowledged on Wednesday that American bombs have been used to kill Palestinian civilians”).
Si potrebbe replicare: “Vedi? Lo dice perfino la Cnn, lo dice perfino il New York Times”.
Appunto: il fatto che siano simili colossi internazionali dell’informazione a dire il falso, e non un qualsiasi falso, ma “quel” falso, semmai aggrava la portata della vicenda, così come la aggrava la circostanza che la cosa passi nell’indifferenza comune.
Ma un profilo supplementare - se il prosciutto sugli occhi non ne impedisse il riconoscimento renderebbe anche più esplosiva la questione.
Ed è questo: che il presidente Biden dice quelle parole (e cioè che dei civili sono morti come conseguenza dell’uso di quelle armi) rispondendo all’intervistatrice che gli domanda esattamente se quelle armi siano state usate “per uccidere i civili”. Il fatto che Biden risponda in quel diverso modo alla domanda sull’uso delle armi “per uccidere i civili” drammatizza lo scollamento tra ciò che ha effettivamente risposto e ciò che falsamente gli si imputa di aver detto.
E a non capirlo possono essere solo due tipi di osservatori: quelli che ci mettono poca intelligenza o quelli che ci mettono molta malafede.
Non sappiamo dire se la Cnn, il New York Times, la Rai, il Corriere della Sera e insomma tutti quelli che hanno messo in bocca a Joe Biden quelle parole si augurassero che Joe Biden le pronunciasse: sappiamo che non le ha pronunciate, come avrebbe verificato chiunque avesse ascoltato le parole registrate nell’intervista anziché leggere quelle contraffatte dai mezzi di informazione che ne hanno trattato.
Salva un’ipotesi finale. Salvo, cioè, che si tratti di dettagli insignificanti e che, dunque, non sia proprio il caso di metterla giù tanto dura per una parola al posto di un’altra. Salvo credere, dunque, che la storia della guerra di Gaza rimanga la stessa a prescindere dal fatto che l’uso delle armi abbia avuto come conseguenza la morte di civili o, invece, che le armi siano state usate “per uccidere i civili”.
Capitale economica, capitale morale, capitale europea. E Milano - che va la pena di ricordare che capitale non è – si ritrova a dover incarnare tutte questa anime, ma soprattutto a trovare la formula per unirle in un’epoca che sembra non dare ben la definizione di alcuna.
L’operosità orgogliosa della città industriale ha assunto forme ancora variabili, passando dalla finanza ai servizi, all’economia digitale. E con essa si accentua lo sbandamento delle caratteristiche di opportunità, scalabilità, solidarietà. Dove il motore è la cultura, l’impegno riguarda l’accessibilità. Dove si immaginano le prospettive, preoccupano i numeri del calo demografico, grave e veloce.
Il fatto è che mai come ora Milano deve pensarsi europea e sociale, come fossero le linee di contenimento, di indirizzo di tutti gli sforzi.
La visione per il futuro c’è, in tutti i settori. I 18 grandi progetti di rigenerazione urbana per i prossimi anni che arriveranno a toccare l’hinterland lo dimostra, così come le iniziative per coniugare vita sociale, commercio e mobilità. Il tessuto della nuova impresa, tra start up e innovazione, con le connessioni con le università, sta a significare che rimane forte lo sguardo sempre volto al futuro.
In tutto questo, però, si rischia sempre che qualcosa rimanga fuori.
Che si creino marginalità destinate a radicalizzarsi. Certo, nell’esser metropoli tutto questo ha del fisiologico, ma la sfida è proprio quella di essere attenti al piccolo, per guardare sempre più al grande.
Il sociale, la povertà, i bisogni, non sono mai uguali. Ne vengono creati di nuovi continuamente, prodotti dai cambiamenti soprattutto economici.
E non riguardano mai le stesse categorie. In questa pagina abbiamo deciso di esordire parlando di terzo settore e sussidiarietà, proprio perché pensiamo che il riformismo che serve debba partire anche da lì. Ma sappiamo che contemporaneamente è indispensabile tener presente che è solo la dimensione culturale e politica europea, quella a poterci offrire i paradigmi della crescita. Allora, dirsi europei ed europeisti, deve voler dire anche condividere pratiche, modelli, soluzioni.
Il sovranismo della sussidiarietà , anche se ha tradizioni nobili, non paga. I giovani, la salute, l’occupazione, la casa sono temi critici che si propongono con prepotenza e non accettano rimedi del momento.
Renderli “temi europei”, nel senso dell’azione politica, del confronto, della capacità di importare ed esportare soluzioni, non può che far bene a Milano. Che può essere ancora capitale economica, morale. E sociale.
“Io sono il popolo”. Il filo nascosto tra fascismo e populismo sta qui, infatti «è questa la prima regola del populismo mussoliniano», come afferma Antonio Scurati in questo libretto, “Fascismo e populismo – Mussolini oggi” edito da Bompiani. Scurati, come tutti sanno, è entrato in rotta di collisione con la Rai (o meglio, la Rai è entrata in rotta di collisione con lui) per la mancata ospitata il 25 aprile nella quale avrebbe rivolto dure critiche al governo di oggi e alla presidente del Consiglio che - com'è noto - rifiuta di spingersi sino a proclamarsi antifascista.
Lo scrittore, autore del monumentale e fortunato romanzo storico “M”, qui argomenta in poche pagine la tesi che il fascismo italiano sia il vero progenitore del populismo, categoria al tempo stesso molto “solida” per le modalità con cui si fa largo e abbastanza “gassosa” nel senso che può riferirsi al Duce come a Beppe Grillo, a Orbàn come a Guglielmo Giannini, cose molto diverse che certo hanno alcuni elementi in comune. Questi, secondo Scurati, oltre l'identificazione dell'uomo (o donna) forte con il popolo, sono per esempio lo spargimento della paura presso l'opinione pubblica, quella paura (ieri del socialismo, oggi degli immigrati) a cui segue presto l'odio, ieri espresso col manganello e oggi via social. Poi l'antiparlamentarismo, dal mussoliniano “bivacco di manipoli” fino alla grillesca “scatoletta di tonno”. E poi la finta scelta di guidare il popolo in favore di quella di “seguire il popolo”: al populista basta annusare il vento della “gente” e assecondarlo, e questo gli viene facile non avendo princìpi né strategia ma solo tattica. Persino l'uso del corpo, nel populismo, è molto particolare, dal Duce a petto nudo che miete il grano fino alla nuotata di Grillo nello stretto di Messina e in un certo senso all'appello a scrivere solo il nome, “Giorgia”, con una vertiginosa operazione friendly che salta ogni mediazione tra la premier e il popolo.
Per cui, «i populisti di ieri e di oggi sono accomunati dal rappresentare una minaccia per la qualità e la pienezza della vita democratica e liberale, una minaccia riassunta nella centralità autoritaria del “capo”», scrive Scurati. L'autore del pamphlet lascia cadere la sua riflessione, diciamo così, sul più bello, e cioè sull'analisi concreta della situazione concreta del nostro paese oggi. È chiaro che egli ha ben presente i nessi tra il fascismo-populismo e perlomeno alcuni tratti della condotta dell'attuale governo. Resta che il nome di Giorgia Meloni qui non compare, forse per evitare altre polemiche, forse perché la questione trascende i governi di oggi ed è come se l'allarme democratico prescindesse dalla realtà per diventare fatto permanente come una malattia progressiva o comunque mai debellata.