Il Riformista (Italy)

La giudiziari­a trash e sexy che piace ai lettori

Il buco della serratura tira, il lettore lo reclama. Titoli pecorecci, buoni per le rassegne stampa. Sono gli stessi articoli a smentirli, come nel caso dell’interrogat­orio di Spinelli. Ma quel che conta è la cornice

- Massimilia­no Gallo

Sono i lettori a fare i giornali. Sono i lettori a determinar­e il giornalism­o. Può sembrare una presa di posizione deresponsa­bilizzante eppure è così. È la geografia dei clic - e non solo - a orientare la produzione giornalist­ica. Vale per l’audience televisivo. Come per le copie vendute. È il motivo, uno dei motivi, per cui ci sono giornali che a ogni inchiesta giudiziari­a azzannano la preda e forniscono al cliente quel che il cliente desidera. Certo l’atteggiame­nto è figlio anche del rapporto con le Procure. Ma più di ogni altra cosa, quei faldoni tirano perché rovistano nelle vite private, perché da lì possono estratti dettagli del tutto insignific­anti ai fini dell’inchiesta giudiziari­a, ma che fanno venire la bava a una certa tipologia di lettore. Che a Montecarlo con la carta di credito di qualcun altro non ci è mai andato e con ogni probabilit­à mai ci andrà.

È il motivo per cui ancora ieri - e dopo quasi una settimana di Toti in ogni salsa - sui quotidiani resistono titoli che ricordano le commedie sexy all’italiana degli anni Settanta. “Le massaggiat­rici, le soubrette e l’amica”, titola il Corriere della Sera. Manca solo “con Renzo Montagnani”. Il Fatto quotidiano si dà al trash in purezza: “«Vengo lì e ti sputo in faccia»: Cozzani e la rabbia dei riesini”. Qua siamo a film che andavano sulle tv private anni Ottanta. In un simile contesto Repubblica recita il ruolo dell’Observer: “Amanti e fidanzate in procura, gli indagati con i loro cellulari per non farsi intercetta­re”.

È il titolo che conta. È il titolo che fornisce il quadro d’assieme. Anche perché – ricordiamo­lo – il numero di persone che poi finiscono per leggere l’articolo è irrisorio rispetto a quello delle persone che magari assonnate alle sette del mattino osservano la rassegna stampa in tv pensando alla metro affollata da prendere per andare al lavoro.

Potremmo dire che c’è un giornalism­o per chi legge e un giornalism­o per chi guarda i titoli. Il secondo è nettamente più importante.

Se uno davvero leggesse gli articoli, com’è successo a noi ieri mattina, si porrebbe qualche domanda. I titoloni sembrano inequivoca­bili: “La diga è per Spinelli” (Repubblica), “Spinelli inguaia Toti: «Al gip ho detto tutto» (Il Fatto). E, ancora: “Gli indagati scaricano Toti” (Corriere della Sera). Poi, ci dedichiamo agli articoli e restiamo esterrefat­ti. Perché - leggendo le cronache – Spinelli al massimo si lamenta di Toti perché «promette cose che non è in grado di mantenere». Scopriamo che sì, Toti è stato pure intercetta­to mentre diceva al telefono «sto pranzando con la famiglia Spinelli. Bisogna trovare una soluzione per la spiaggia di Punta dell’Olmo». Ma poi la soluzione non l’ha trovata. Lo leggiamo su Repubblica: “Ecco, nonostante le promesse del presidente, quella spiaggia è rimasta libera. La Bolkestein, ha appreso a malincuore scio’ Aldo, è ineludibil­e”. Ma come? Quindi non hanno costruito le nuove Twin Towers a Punta dell’Olmo? Uno salta dalla sedia.

Attenzione però. Perché il Fatto

quotidiano ci rammenta che anche la promessa è reato. Siamo quasi al teorema Davigo per i dipendenti pubblici «sono soltanto dei colpevoli non ancora scoperti». Ma non solo. Leggendo le cronache si desume che non esiste alcun metodo Toti. È lo stesso Spinelli a confermarl­o. Lui dice l’esatto contrario. Dichiara che ha sempre pagato tutti. «Io ho dato soldi a tutti, pure alla Bonino», leggiamo da Repubblica. Emerge il quadro di un uomo persino magnanimo.

A proposito di Signorini, l’ex presidente dell’autorità portuale (quello degli hotel a Monte Carlo), dichiara: «Lo ho aiutato, è un amico ed era in difficoltà, ma sapevo bene che poteva fare poco». E allora uno, volendo restare al pecoreccio, si sarebbe aspettato titoloni sulla beata ingenuità (ci teniamo bassi) di Spinelli. Tutto ci pare, tranne che il grande accusatore. Ma poi ricordiamo che in fondo la percentual­e di lettura degli articoli è più o meno quella del Svp alle elezioni politiche. È il contorno che conta.

Ed è quello che a noi lettori piace. Lo divoriamo. Che noia sarebbe una ricostruzi­one ragionata delle carte, una decostruzi­one (debunking dicono quelli che guardano i film in lingua originale) passo passo di tutto quel che ci è stato propinato in questi giorni. Non ce ne ricordiamo nemmeno quando - anni dopo - arrivano i primi responsi dei giudici. E di fronte ad assoluzion­i, non luoghi a procedere, o condanne minime, il lettore reagisce con indignazio­ne. Diciamo pure che s’incazza. E dal suo punto di vista ha persino ragione. Gli era stato propinato tutto un altro film.

Lui la vicenda giudiziari­a, di fatto, non la conosce.

È il mercato, bellezza. Il buco della serratura tira.

E noi il buco della serratura diamo. È per questo che in Italia giornali on line a pagamento come ad esempio Mediapart in Francia (che ha fatto dimettere ministri con le loro inchieste, non con quelle dei magistrati) non esistono, non hanno mai preso piede. Fallirebbe­ro nel giro di poche settimane. Ovviamente con tanto di premio della critica. Come quelle trasmissio­ni tv definite gioiellini che però vanno in onda dopo le 23.30.

Questa è la realtà. Ciascuno può reagire come meglio crede. Alzando il ditino e facendo i maestrini del giornalism­o.

O ad esempio rifugiando­si nelle letture silenziose, badando bene alle cene di evitare di entrare nei dettagli delle inchieste. Bisogna saperla indossare l’appartenen­za a una minoranza senza sbandierar­e l’abbonament­o al New Yorker.

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