L’opzione del polo con Snam
Sinergie per 100 milioni in caso di aggregazione, ma con una fusione non si risolverebbe il problema del controllo pubblico
Snam capitalizza in Borsa 13 miliardi, Terna meno di 6. Di regola è il pesce grosso che mangia quello piccolo. Ma in questo caso il pesce grosso non ne vuole sapere. «Non credo abbia senso. Può essere una scelta politica, ma non di business: tra le due società non ci sono sinergie operative», ha tagliato corto non più di un mese fa Carlo Malacarne, ad della rete gas. Punto e a capo. E tuttavia che sia il pesce piccolo a farsi avanti non è un’ipotesi del tutto peregrina, anche se sul tema l’ad di Terna, Flavio Cattaneo, si è trincerato dietro un assoluto no comment. Sulla carta l’opzione Terna si presterebbe a risolvere il rebus del controllo. La rete del gas è infatti un asset di indubbia valenza strategica per il Paese e bisogna trovare il modo, scorporandola da Eni, di assicurare un presidio pubblico. Oggi il presidio è indiretto. La Cdp (70% Tesoro) ha infatti il 26,37% dell’eni, mentre un altro 3,93% è in mano al ministero dell’economia. A sua volta Eni controlla il 52,53% di Snam. Se la partecipazione fosse scorporata in una newco, l’azionariato resterebbe invariato in una holding che però avrebbe come unico asset la maggioranza di una società quotata, con tutti gli handicap di mercato di una scatola cinese. Se invece fossero distribuite le azioni Snam agli azionisti Eni, nella società del gas la Cdp avrebbe il 26,37% del 52,53%, cioè il 13,85%; il Tesoro si diluirebbe al 2,06%: nel complesso l’azionariato pubblico arriverebbe al 15,9% del capitale e, considerate le azioni proprie, al 16,8% dei diritti di voto, comunque poco per garantire la stabilità del controllo. Entrambe le soluzioni sarebbero a costo zero per le finanze statali, ma priverebbero l’eni delle risorse derivanti dalla perdita di un asset che finora ha assicurato ottimi e "sicuri" dividendi e il vantaggio sarebbe solo il deconsolidamento di 11,2 miliardi di debito.
Unintervento di Terna permetterebbe di contemperare due esigenze: mantenere il controllo pubblico, senza pesare sulle casse statali, e riconoscere a Eni il corrispettivo monetario della quota Snam. La Cdp, col 29,9%, è infatti l’azionista di riferimento della so- cietà che possiede la rete elettrica nazionale. Che Terna possa rilevare il 52,53% di Snam non è plausibile, perchè scatterebbe l’opa. Restando sotto la soglia rilevante – basterebbe il 28% che consentirebbe di disporre di quasi il 30% dei diritti di voto, mentre il resto della quota Eni potrebbe essere collocato sul mercato – si limiterebbe l’esborso a 3,6-4 miliardi e probabilmente si eviterebbe il ricorso a un aumento di capitale che impegnerebbe la Cassa a fare la propria parte. Il management di Terna ha dichiarato infatti la disponibilità di 2,5 miliardi di cassa e la possibilità di smobilizzare asset con una formula simile a un lease-back per aumentare la flessibilità finanziaria in presenza di opportunità di investimento (si è spesa come monetizzabile una cifra dell’ordine di 1,5 miliardi).
Per sviluppare sinergie occorrerebbe però procedere con una