Vietnam a corto di filiere
L’export continua a crescere ma tecnologie e materiali sono quasi tutti acquistati all’estero Il Paese ha bisogno di sviluppare una catena produttiva completa
Una piccola Cina da cui partire per avviare una presenza graduale sui mercati dell’asia senza incorrere nei problemi e nei costi di chi punta direttamente su Pechino. È questa la carta che sta giocando in questo momento il Vietnam, un Paese dove negli ultimi 10 anni sono confluiti investimenti diretti di multinazionali statunitensi, europee, coreane, giapponesi (e cinesi) per 129 miliardi di dollari.
Oggi il Vietnam è il secondo esportatore asiatico nei settori dell’abbigliamento, del mobile e delle calzature. Ma con una particolarità: le filiere sono "incomplete" nel senso che la quasi totalità dei materiali e delle tecnologie (15 miliardi di dollari importati nel 2011) sono acquisite all’estero. È questa la grande differenza con la Cina. «In fondo, noi vendiamo solo la nostra manodopera, tutto il resto viene da fuori», spiega Le Dang Doanh, uno degli economisti più ascoltati dal Governo di Hanoi.
Nel 2011 le esportazioni di vestiti vietnamiti hanno superato i 14 miliardi di dollari ma il Paese ha importato anche 6 miliardi di dollari di tessuti e accessori e la quasi totalità dei macchinari. Considerazioni analoghe valgono per pellami, componentistica meccanica (in Vietnam si producono oltre 3 milioni di moto all’anno) eccetera. Tutto questo è uno svantaggio per il Sistema Paese vietnamita, ma rappresenta invece un’opportunità per gli esportatori italiani di questi prodotti interessati a inserirsi nel sistema asiatico di produzione.
È il caso ad esempio del gruppo Carvico, che ha aperto vicino a Ho Chi Minh City uno stabilimento di tessuti elasticizzati per la clientela del Fareast, o della Bonfiglioli di Bologna che in Vietnam produce riduttori per macchinari industriali e centrali eoliche che vengono esportati in gran parte in Cina.
L’altro aspetto interessante del Paese è l’inserimento nell’area Asean di libero scambio con 610 milioni di consumatori, definita oggi come il "quinto Bric", che comprende anche Indonesia, Thailandia, Malaysia, Singapore e altri Paesi emergenti come Cambogia e Birmania. Con il vantaggio di poter esportare in questi Paesi con un dazio massimo del 5%. È questo il motivo che ha spinto il gruppo Piaggio a localizzare in Vietnam una fabbrica per la produzione di moto con l’obiettivo di presidiare l’insieme dei mercati dell’asia Pacifico. Con il raddoppio dello stabilimento vietnamita annunciato da Roberto Colaninno, che passerà da 150mila a 300mila moto all’anno, punta a riconquistare le posizioni che aveva in passato in Indonesia, il terzo mercato in Asia dopo Cina e India.
Le autorità vietnamite sono le prime a sapere che il vantaggio competitivo derivante dalla disponibilità di una manodopera non durerà a lungo. Oggi il salario d’ingresso di un operaio in Vietnam è attorno ai 100 dollari a cui bisogna aggiungere circa il 30% di oneri sociali e arriva a un massimo di 180 dollari (260 con gli oneri). Ma a Ho Chi Minh City e Hanoi, principali poli produttivi del Paese, la manodopera comincia a scarseggiare.
Si aggiunge il forte ritardo del Paese nelle infrastrutture: rete ferroviaria obsoleta, mancanza di autostrade, porti con pescaggio ridotto che obbligano a gestire il traffico container transoceanico con operazioni di trasbordo a Singapore e Hong Kong. Si aggiunge l’inadeguatezza della rete elettrica. In Vietnam l’energia costa pochissimo (attorno a 6/7 centesimi di dollari per kwh) ma le interruzioni nelle forniture sono frequenti. Il Governo sta cercando di rimediare con un ambizioso programma che prevede nei prossimi 5 anni un volume di investimenti annuo pari a 15 miliardi, con un forte coinvolgimento di capitali privati. «Per gestire questo programma abbiamo bisogno anche di esperti e imprese italiane» hanno dichiarato al Radiocor Sole 24 ore il viceministro del Piano Dang Huy Dong e il prossimo ambasciatore vietnamita in Italia, Nguyn Hoàng Long.