Bersani: Monti non ci può dire «prendere o lasciare»
Dal segretario aut aut a Monti («votiamo solo se convinti») ma il partito è diviso
«Monti non può dirci prendere o lasciare. Noi votiamo solo se siamo convinti, e con noi si ragiona. C’è il Parlamento, e il Pd si prenderà la briga per correggere la parte della riforma che riguarda l’articolo 18 portando avanti un’idea precisa di modello sociale: l’italia è un grande Paese manifatturiero e il nostro sistema di regole lo aggiustiamo alla tedesca e non all’americana». Il leader del Pd prende la parola in prima serata da Bruno Vespa e lancia un messaggio chiaro al premier: il mandato ricevuto era lavorare per un accordo con le parti sociali, così non è stato, e il Pd non è disposto a votare la riforma del lavoro se non ci saranno modifiche sull’articolo 18. Serve la soluzione tedesca non solo per i licenziamenti disciplinari ma anche per quelli economici: deve essere sempre il giudice a decidere tra reintegro ed equo indennizzo. «Con la riforma del Governo i licenziamenti discriminatori e disciplinari scomparirebbero, li- cenzierebbero tutti per motivi economici per evitare il passaggio dal giudice. E questo non va bene perché sposta il rapporto di forza dalla parte del datore di lavoro». Quanto all’ipotesi di procedere per decreto, Bersani è categorico: «Non esiste in natura».
Il segretario va in diretta a «Porta a porta» dopo una giornata difficilissima per il Pd, iniziata con la rivolta dei militanti e degli elettori sul web. Tanto per capire da che parte sta la base del partito. «Questo è il governo Montusconi, manco Sacconi e Brunetta». «Se passa questa riforma dell’articolo 18 con il vostro appoggio non voteremo più Pd». «Basta, bisogna staccare la spina a Monti». In decine e decine di commenti, sul profilo Facebook di Bersani e su quello del partito, vengono citati casi di crisi aziendali con il rischio di licenziamenti a breve. E la riforma del Governo – è l’accusa – sarebbe la stampella ideale per le imprese, con l’assenso del Pd. Nel pomeriggio Bersani si sfoga ad alta voce in Transatlantico con l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano, area filo-cgil: «Se devo concludere la vita dando l’ok alla monetizzazione del lavoro, io non intendo concluderla così. Non so come faremo...». Poco dopo a Largo del Nazareno il responsabile economico Stefano Fassina riuniva esperti e tecnici (tra i presenti Tiziano Treu, Piero Ichino, Carlo Dell’aringa) per mettere a punto le modifiche che il Pd porterà in Parlamento. Eccole: allargare la platea degli aventi diritto agli ammortizzatori sociali, che devono avere valore davvero universale; introdurre politiche attive per il lavoro. Infine l’articolo 18: la soluzione alla tedesca – e quindi il passaggio dal giudice – deve valere in tutti i casi.
Nel corso della serata sulla linea delle modifiche in Aula si schierano via via molti big: in primis Massimo D’alema, che esce dalla posizione defilata degli ultimi giorni («il testo così com’è è pericoloso e confuso e va cambiato»). Ma anche il vicesegretario "montiano" Enrico Letta, che a caldo – insieme all’ex ppi Giuseppe Fioroni – aveva dato un giudizio positivo sulla riforma del Governo: «L’articolo 18 ha un valore simbolico, comporta una sofferenza che deve essere trasferita in un cambiamento in Parlamento, su questo siamo tutti d’accordo». Si va in Aula, dunque. Ma il partito è diviso. «L’impatto c’è stato, inutile nasconderselo», dice il lettiano Francesco Boccia. Che rilancia sullo strumento della legge delega. «Bisognava puntare sulla delega fin dall’inizio. Ci siamo infilati nel cul de sac dell’accordo preventivo con i sindacati ed ecco dove siamo». Bersani in tv assicura che il Governo non rischia («ci sarà chiarimento»). Ma intanto i democratici fanno i calcoli in Transatlantico: sarebbero una cinquantina i deputati "montiani" che non seguirebbero un’eventuale indicazione di voto contrario sulla riforma. Il provvedimento passerebbe, e il Pd andrebbe in frantumi.