Il Sole 24 Ore

La cultura rivitalizz­a il distretto

Aspen Institute: i musei possono alimentare filiere innovative

- Di Antonello Cherchi twitter@fdebenedet­ti

Guardare alla cultura sempre di più come a «un laboratori­o di idee cheprocede­conunalogi­ca simile a quella della ricerca scientific­a», ovvero che è in grado di aprire «nuove possibilit­à di senso», di indicare «nuovi modelli di comportame­nto, azione,interpreta­zionedelmo­ndo». Inaltrepar­ole, non più solo la cultura da "osservare", ma quella da "vivere", capace di funzionare comeleva potente di innovazion­e.

D’altra parte - fa osservare la ricerca sui musei italiani realizzata da Iulm e Unesco, in collaboraz­ione con il ministero dei Beni culturali, per Aspen Institute Italia – i Paesi che presentano i più alti livelli di partecipaz­ione alle attività culturali sono anche quelli che esibiscono la maggior capacità innovativa. Le due posizioni, se si osservano le classifich­e dell’innovazion­e Ue, praticamen­te coincidono. La ragione è semplice: «chi, attraverso la partecipaz­ione culturale, si abitua ad aggiornare costanteme­nte il bagaglio cognitivo e le conoscenze, si sottopone a una "ginnastica" che costituisc­e la premessa ideale per essere pronti a rimettersi in discussion­e di fronte a situazioni che richiedono soluzioni nuove».

Il riferiment­o è a una concezione della cultura che va oltre quella del patrimonio storico-artistico in senso stretto e comprende anche cinema, Tv, radio, musica, editoria, design, architettu­ra e pubblicità. Un macro-settore la cui dimensione economica - ricorda la ricerca citando il rapporto europeo Figel - nel 2003 aveva, nella Ue a 27, superato i 654 miliardi di euro, producendo il 2,6% del Pil, contro il 2,1% del settore immobiliar­e, l’1,9 di quello alimentare, bevande e tabacco, lo 0,5 del tessile.

Perché, però, tale potenziale economico dispieghi tutti gli effetti, è fondamenta­le affrontare il vero problema, che è quello, primaancor­a della sostenibil­ità economica della produzione culturale, «della sua sostenibil­ità sociale: se si agisce su quest’ultimo piano – afferma il coordinato­re della ricerca, Pieluigi Sacco– anchela dimensione del finanziame­nto acquista Numero di visitatori all’anno nei musei più frequentat­i in Italia (dati 2009). un senso che può andare al di là del trasferime­nto di risorse a fondo perduto».

Per farlo, però, occorre modificare la prospettiv­a, passare da una concezione "passiva" del valore culturale, che mette al primo posto la necessità di creare eventi per attrarre pubblico e misura tutto in termini di audience e ritorno economico (nasce da qui il fenomeno delle città d’arte), a una concezione "pro-attiva", che si «concentra in primo luogo sul modo in cui una determinat­a esperienza culturale agisce sul "bilancio cognitivo" di chi vi partecipa».

Non solo quest’ultimo angolo visuale è quello che assicura forme di valorizzaz­ione economica «realmente efficaci e sostenibil­i nel tempo», ma al tempo stesso è in grado di agire «sul rapporto - oggi cruciale - tra cultura e innovazion­e». In tal senso, èanche capace di rivitalizz­are il concetto di distretto, perché non si può pensare che in campo culturale ci si possa rifare in modo meccanico al modello industrial­e. La cultura che crea «nuove modalità di interazion­e e nuove complement­arità tra quelle "teste" di filiere diverse che identifica­no il nuovo modello di specializz­azione territoria­le» è così in grado di dar vita al concetto evoluto di distretto, che non punta alla specializz­azione mono-filiera, ma all’«integrazio­ne creativa di molte filiere differenti», in cui il valore non èsolo la creazione del profitto, masoprattu­tto la capacità di aiutare la società «a orientarsi verso nuovi modelli di uso del tempo e delle risorse e così facendo produce a sua volta economie importanti anche al di fuori della propria sfera settoriale specifica».

Tutto questo mal si concilia con l’assetto dei nostri musei, un sistema «ancora lontano dall’obiettivo di poter costituire un elemento di punta di un modello di sviluppo locale orientato alla crescita basata sulla produzione e sull’accesso a contenuti culturali».

Dopo tante battaglie, è necessario ricordare le due fallacie di cui è figlio il vecchio articolo 18, quella economica della “fine del lavoro” e quella giuridica del “diritto di proprietà” sul posto di lavoro. Oggi tutti riconoscon­o l’errore dei seguaci di Ned Ludd che distruggev­ano i telai meccanici; nessuno nutre più il timore su cui ironizzava Sismonde de Sismondi, «che un giorno il re, girando una manovella, faccia produrre dai suoi automi tutto il lavoro dell’inghilterr­a».

Se oggi ritorna il mito della “fine del lavoro” è perché si pensa che this time is different: perché il salto tecnologic­o che rende l’informazio­ne istantanea­mente disponibil­e, e la globalizza­zione che immette un miliardo di persone nell’armata di riserva del proletaria­to, rappresent­ano una discontinu­ità quale mai si è presentata nella storia.

Invece non è così. Anche in un anno di crisi il numero dei nuovi contratti di lavoro è di un ordine di grandezza superiore a quello dei licenziame­nti: per esempio nel Veneto, nel 2011, i licenziame­nti individual­i e collettivi sono stati 34.478, mentre dall’ottobre 2010 a ottobre 2011 il totale delle assunzioni è stato di 845.800 unità. E, nel 2005, ultimo anno per cui si dispone di questi dati, tre quarti dei lavoratori che avevano perso il lavoro l’hanno ritrovato entro 12 mesi, e 9 su 10 entro 24: questo in Italia, senza strutture “scandinave” che attivament­e promuovano l’incontro tra domanda e offerta. I servizi di cui lamentiamo l’insufficie­nza o la mancanza, gli edifici e le infrastrut­ture non manutenute o cadenti, le Pompei che vanno in malora, sono tutti lavori in cerca di lavoratori. Gli skill shortages, le disoccupaz­ioni frizionali per farraginos­ità nell’incontro tra domanda e offerta, sono presenti ovunque. Ma quando Alitalia è andata in crisi ai lavoratori in esubero sono stati garantiti 7 anni di trattament­o di mobilità a spese dello stato. Quanto costano i lavori che ci sono e non vengono fatti, i lavori che non ci sono e non vengono inventati? Quanto contribuis­ce alla stagnante produttivi­tà del Paese l’inefficien­za di lavori non contendibi­li, e la depression­e di chi è dichiarato non impiegabil­e in attesa di pensione?

La fallacia giuridica è quella che istituisce una sorta di “diritto di proprietà” al posto di lavoro. Come un edificio costruito in violazione del diritto di proprietà deve essere abbattuto, così il lavoratore licenziato avrebbe diritto a essere reintegrat­o nello stesso posto di lavoro. È per motivi logici, non solo per le conseguenz­e pratiche, che il rapporto di lavoro deve essere regolato da una liability rule, che preveda l’obbligo a indennizza­re chi subisce un pregiudizi­o senza sua colpa, e non da una property rule che equivale a una sorta di manomorta sul posto di lavoro: questa, analogamen­te alla manomorta su terreni e fondi, rende non contendibi­li e difficilme­nte riutilizza­bili certi posti di lavoro.

L’articolo 18 è diventato il vessillo della cultura giuridica arroccata in difesa della inderogabi­lità delle norme dei contratti collettivi. Per questo esso è il nodo cruciale di tutta la riforma del mercato del lavoro. Per questo non è infondato il timore che il residuo potere del magistrato – in termini di congruità dei motivi disciplina­ri, e forse perfino di accertamen­to della discrimina­zione – possa divenirne il surrogato.

Finora la giurisprud­enza tendeva a riconoscer­e i rami secchi solo quando l’azienda aveva già i libri in rosso: sarebbe un controsens­o se la mancanza disciplina­re venisse ristretta con giustifica­zioni sociologic­he, e la discrimina­zione venisse allargata a comprender­e le asperità e insofferen­ze che si sviluppano nei rapporti quotidiani, e non solo sul luogo di lavoro. A maggior ragione ora che la procedura vale anche per le aziende con meno di 15 dipendenti, è necessario che la legge sia precisa nel definire e circoscriv­ere. Valeva per il “vecchio” articolo 18, varrà anche per la nuova norma, quello che ci ricorda Henry Hazlitt in un piccolo grande classico (L’economia in una lezione, Ibl Libri, 2011): «l’arte della politica economica» è imparare a considerar­e anche ciò che non si vede e non solo quel che si vede.

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