Cina, i ritardi italiani nel food
L’alimentare made in Italy cresce molto ma paga l’assenza dai grandi circuiti della distribuzione Pesano anche le dimensioni ridotte delle aziende e il fattore prezzo
Molti l’avevano auspicata. Pochi ci avevano creduto, almeno in tempi così brevi. E invece la rivoluzione enogastronomica cinese è una realtà.
«Ormai il 70% dei coperti è rappresentato da clientela locale. Due anni fa, quando abbiamo aperto, non era così» dice Francesco Brusa, manager del ristorante Isola a Shanghai. «Oltre la metà dei nostri avventori è cinese: solitamente sono clienti aperti, curiosi ed esigenti» conferma Valentino Palmisano, executive chief di Sabatini.
Insomma, i cinesi amanti della buona tavola sono sempre più inclini a sperimentare percorsi gastronomici diversi. E in quest’avventura l’italia fa la parte del leone: basta cliccare sul telefonino una delle tante applicazioni "guida della città", infatti, per scoprire che oggi a Shanghai ci sono ben 135 ristoranti italiani, contro 49 francesi, 26 spagnoli e 22 indiani.
Come accaduto trent’anni fa in Giappone, o dieci anni fa in Corea del Sud, anche in Cina il boom della ristorazione tricolore può avere uno straordinario effetto traino per l’intera filiera agroalimentare italiana.
I numeri fanno ben sperare. Nel 2011 le nostre esportazioni di prodotti tipici come pasta, pomodoro, caffè, cioccolato, vino, olio d’oliva sono ammontate a 276 milioni di dollari, il 48% in più sul 2010 e oltre il doppio rispetto al 2009. Per dare un peso relativo, oggi il 10% dei prodotti di questa categoria importati in Cina è made in Italy.
I francesi però fanno meglio di noi, anzi molto meglio di noi (814 milioni di dollari di export nel 2011), ma va detto che oltre l’80% delle loro vendite in Cina è rappresentato dal vino, un settore in cui i hanno il predominio assolu- to sul mercato locale.
«In tutti gli altri comparti, a parte l’acqua minerale, vendiamo più dei francesi - osserva Maurizio Forte, direttore dell’ufficio Ice di Shanghai - Non è male, se si pensa che il nostro agroalimentare in Cina è particolarmente penalizzato dal divieto di importazione di prodotti freschi e di carni lavorate».
La lunga marcia del food & beverage tricolore in Cina è però ostacolata da tre fattori strutturali. Primo: fatta eccezione per Ferrero, l’unico gruppo italiano ad aver affrontato il mercato cinese con una strategia mirata (i 101 milioni di dollari di export di cioccolato italiano nel 2011 sono quasi interamente appannaggio del colosso dolciario di Alba), gli altri sono tutti operatori medio-piccoli. Secondo: il mercato cinese è ancora poco sofisticato (con l’eccezione del vino), e bada più al prezzo che alla qualità. Terzo: l’italia, a differenza dei suoi concorrenti (in particolare i francesi), in Cina non ha né catene distributive, né grandi gruppi alberghieri tramite cui promuovere e vendere i suoi prodotti.
Prodotti che, peraltro, hanno pochissime probabilità di finire nel circuito della vendita al dettaglio. E in questo la Cina non si differenzia da altri mercati asiatici molto più sviluppati (Giap- pone, Hong Kong, Corea) dove la presenza della cucina italiana nella dieta domestica è del tutto marginale.
«Non è facile scardinare le abitudini culinarie dei cinesi. Ciononostante, cresciamo dell’8% l’anno e vendiamo piuttosto bene la pasta, l’olio d’oliva e alcuni generi di salumi che incontrano il gusto locale» dice Claudio D’agostino, partner di Feidan, una piccola catena di distribuzione di generi alimentari italiani di Shanghai.
Ecco perché la ristorazione, che ultimamente sta trovando sempre più operatori cinesi pronti a condividere l’investimento, è destinata a giocare un ruolo cruciale nella partita dell’agroalimentare italiano. Ma andrà sostenuta, anche a livello istituzionale, perché lo sbarco in Cina non è una passeggiata, condizionato com’è da costi di affitto esorbitanti, difficoltà nel reperire le materie prime, e scarsa disponibilità della clientela domestica a spendere per gustare la qualità del made in Italy.
Come? Proseguendo l’attività promozionale nel Paese: sotto questo profilo la prossima apertura dello Shanghai Italian Center sarà una preziosa opportunità per enti locali, istituzioni e aziende private del settore. Lavorando sulla formazione di esperti cinesi che siano in grado di presentare correttamente l’agroalimentare made in Italy. E poi sfruttando il passaparola degli stessi cinesi.
«L’esperienza dimostra che il consumatore di ritorno è un formidabile testimonial per la crescita dell’agroalimentare italiano nel mondo - aggicunge Forte - Per questo motivo, i tour operator dovrebbero essere più audaci e iniziare a proporre anche degli itinerari enogastronomici ai turisti cinesi che visitano l’italia».