«Mancino tentò di inquinare le prove»
Processo Mori, il pm Di Matteo accusa l’ex ministro degli Interni – Il blitz per la cattura di Provenzano «fallì per ragioni di Stato»
Le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, sono state citate ieri dal pm Nino Di Matteo nella sua requisitoria nel processo ai militari del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, come «uno dei tanti tentativi di strumentale inquinamento della prova in questo procedimento». In una delle chiama- te, l’ex ministro è preoccupato che ci sia un accanimento dei pm che avevano chiesto il confronto in aula con l’ex guardasigilli Claudio Martelli.
«Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio chiamando il consigliere del Presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato per evitare il confronto – ha spiegato Di Matteo – è il processo in cui testi particolarmente qualificati come ministri o membri delle forze dell’ordine hanno reso dichiarazioni contraddittorie e incompatibili. A molti è venuta la memoria solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino».
Inoltre, il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel fallito blitz a Mezzojuso (Palermo) il 31 ottobre del 1995 è solo uno dei pezzi della complessa storia dei rap- porti tra lo Stato e la mafia, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, fatta di «inaccettabili omissioni» in nome di «un’inconfessabile ragione di Stato». Secondo Di Matteo, Mori e Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia, sono collocabili tra coloro i quali «obbedendo a indirizzi di politica criminale per contrastare la deriva stragista, hanno ritenuto di trovare un rimedio assecondando la prevalenza dell’ala moderata della mafia. Era necessario per questo garantire la latitanza a Provenzano».