Il Sole 24 Ore

Per disconosce­re la paternità un anno di tempo

Le regole sui termini

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Per il disconosci­mento di paternità il termine è di un anno dal momento in cui il padre ha avuto certezza del fatto, e non conta che la prova ematica o del Dna sia intervenut­a dopo. Non solo: la prova rivelatori­a può anche essere una scenata nel corso della quale la madre affermi la sua volontà di andarsene con un altro uomo.

La Corte di cassazione (sentenza 7581, depositata ieri) ha respinto il ricorso di un uomo che si trovava in una situazione a dir poco imbarazzan­te e con una famiglia un po’ complicata ma che, avendo atteso troppo tempo per esercitare l’azione di disconosci­mento, ormai resterà il padre legale di figli non suoi.

La vicenda prende le mosse nell’ultimo decennio del secolo scorso. Per il Tribunale (giudizio poi confermato in appello) la conoscenza degli adulteri della moglie (perché i figli da disconosce­re erano due, di due amanti diversi, uno dei quali cognato del marito) era da fissare nell’anno 2000, mentre il marito sosteneva che solo dei biglietti anonimi, le confidenze di una conoscente e i risultati delle indagini di un investigat­ore privato avevano dato la necessaria certezza, nel 2002, dell’avvenuto adulterio, poi confermato dalle indagini sul Dna dei figli. E nell’ottobre 2002 aveva proposto l’azione di discono- scimento di paternità dei due figli (nati nel 1988 e 1992).

Il tribunale, però, nel 2006, aveva respinto l’azione di disconosci­mento perché era stata proposta nel 2002 mentre risaliva al 2000 la conoscenza dell’adulterio, che «deve concretars­i nella cognizione di un legame a sfondo sessuale della donna», prova che è stata ritenuta acquisita «anzitutto alla luce delle stesse affermazio­ni contenute nell’atto di citazione - l’intenzione più volte manifestat­a dalla moglie di andarsene con la figlia e uno degli amanti» e dalle scenate di gelosia del marito per la relazione intrattenu­ta tra la moglie e (peraltro) un terzo uomo (l’unico della serie a non aver avuto figli dalla donna), «correttame­nte ritenute dal primo giudice aventi contenuto confessori­o circa la certezza e non già il semplice sospetto delle relazioni della moglie con i due convenuti (cioè i padri dei due figli, ndr), attestanti durata e intensità affettiva di quegli stretti legami». Il «coerente quadro istruttori­o» aveva convinto i giudici di merito dell’intempesti­vità dell’azione. Le scenate, quindi, erano state la prova inequivoca­bile della conoscenza degli adulteri. Né è valso il richiamo del ricorrente alla sentenza della Consulta 266/2006, che ammette il ricorso alla prova del Dna ma che, ha chiarito la Cassazione, non incide sul termine di un anno dalla conoscenza dell’adulterio.

La tesi della Corte è quindi stata accolta in pieno dalla Cassazione, che ha pure condannato il marito a rifondere spese e danni alla moglie e ai due amanti, convenuti senza ragione.

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