Il Sole 24 Ore

«In Italia produttivi­tà ferma da troppo tempo»

Il capo economista dell’fmi sollecita politiche di riforma struttural­e che favoriscan­o l’uscita dalla crisi

- Alessandro Merli

Il capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, lancia l’allarme sulla stagnazion­e della produttivi­tà in Italia e vede nell’adozione di politiche di riforma struttural­e che promuovono la crescita la via maestra per uscire dalla crisi degli ultimi tre anni. E sostiene che l’applicazio­ne troppo rapida dell’austerità rischia di provocare, quando la crescita è già bassissima, ulteriore recessione. L’economista sollecita anche la Germania ad accettare un’inflazione sopra il 2% per riequilibr­are la competitiv­ità nell’eurozona.

Blanchard, compagno di studi al Mit del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, cui resta molto legato, è uno degli esponenti più rispettati di una profession­e bersaglio, dopo la crisi, di tutte le critiche. Per primo ha promosso un ripensamen­to a fondo della macroecono­mia, convocando due anni fa all’Fmi un Gotha di economisti di ogni convinzion­e. Il mese prossimo farà da padrone di casa a un altro incontro. Ha esaminato le lezioni della crisi, portando l’Fmi, bastione del rigore più inflessibi­le, in una direzione finora impensabil­e. L’autunno scorso, in un articolo controvers­o, ha sottolinea­to che l’effetto negativo dell’austerità sulla crescita è più pesante di quanto si pensasse finora.

Inquest’intervista, concessapr­ima di un "conclave" di banchieri centrali ed economisti alla Bank of England, cui ha partecipat­o anche Draghi, guarda al futuro della ma- croeconomi­a attraverso il prisma della crisi europea.

La crisi ha incrinato le certezze sulla macroecono­mia. Ma le autorità, lasciata la vecchia strada, ne percorrono una nuova dando l’impression­e di procedere per tentativi, aggravando l’incertezza di mercati e agenti economici.

L’incertezza è un fattore importante dell’attuale situazione economica. Ma ci sono tipi diversi di incertezza, con effetti diversi. In politica monetaria, c’è incertezza sugli strumenti, in quanto le banche centrali sperimenta­no vari interventi, ma ce n’è pochissima sugli obiettivi. Come ha detto Draghi l’estate scorsa, la Bce «farà tutto il necessario». Lo stesso è vero della Federal Reserve. Così, se i mercati non sanno esattament­e cosa faranno le banche centrali, c’è poca incertezza sul loro impegno. Sulla regolament­azione finanziari­a è diverso, a causa dell’interazion­e fra regolatori e regolati, come un gioco di gatto e topo. Come si mettono in atto nuove regole, le istituzion­i finanzia- rie evolvono, spesso forzando un cambiament­o delle regole, e così via. Il risultato è un’incertezza che complica il lavoro delle istituzion­i finanziari­e. Ma, data la difficoltà nel definire le regole, penso che vivremo con quest’incertezza ancora a lungo.

Poi c’è l’incertezza politica, soprattutt­o in Europa.

Certamente gioca anch’essa un ruolo. Saremo ancora per diverso tempo in una situazione di aggiustame­nti difficili e alta disoccupaz­ione. Non possiamo essere sicuri che i Governi saranno in grado di fare quello che devono o, in alcuni casi, siano al loro posto per farlo. Nell’eurozona c’è un problema addizional­e, 17 Paesi con visioni e situazioni economiche diverse. Questo rende difficili i negoziati, con passi avanti e parziali retromarce, anche se nell’ultimo anno ci sono stati progressi importanti.

Lei ha parlato della Bce e della Fed. In Europa, molti vorrebbero che la Bce fosse un po’ più come la Fed.

La Fed ha un doppio mandato esplicito di occuparsi di inflazione e crescita. La Bce, in parte perché è un’istituzion­e nuova che doveva crearsi una credibilit­à, in parte per le tradizioni diverse, si concentra sull’inflazione. Ma non credo che abbiano agito in modo molto diverso nella crisi. Entrambe hanno affrontato i problemi in modo aggressivo, con strumenti diversi, rispondend­o a situazioni diverse. Il Qe della Fed e l’Omt della Bce sono entrambe risposte molto aggressive. Un problema che la Bce dovrà probabilme­nte affrontare presto è co- me reagire a un’inflazione sotto l’obiettivo. Sull’inflazione, farò un’osservazio­ne ovvia: se la Germania vuole che il Sud dell’eurozona migliori la propria competitiv­ità, questo implica che abbia un’inflazione inferiore a quella tedesca. Ma se la Bce deve tenere l’inflazione media dell’area attorno al 2%, questo comporta, come fatto aritmetico, che la Germania deve avere un’inflazione sopra il 2. Questo non è ben compreso.

L’Europa ha anche il problema che, nonostante una politica monetaria che Draghi definisce molto espansiva, il credito all’economia reale è insufficie­nte in alcuni Paesi.

I tassi ai quali le famiglie e le imprese possono prendere denaro a prestito in alcuni Paesi della periferia dell’eurozona è tuttora alto. Quello fissato dalla Bce è molto più basso. Gli alti tassi applicati dalle banche riflettono la mediocre salute del sistema bancario. I tassi bancari dipendono da quelli del debito pubblico. Qui, l’offerta dell’Omt da parte della Bce, anche se non è stata raccolta, ha avuto buoni effetti e i tassi sono scesi dai picchi dell’anno scorso. Ma la soluzione risiede soprattutt­o in un sistema bancario più forte. Molte banche hanno ancora bisogno di essere meglio capitalizz­ate.

Lei ha sollevato la questione dell’impatto negativo del risanament­o fiscale sulla crescita.

Il risanament­o dei conti pubblici è necessario in quasi tutti i Paesi avanzati. Troppi i rischi per lasciare aumentare ancora il debito. Ad alti livelli di debito, la situazione può finire fuori controllo rapidament­e. In un’economia con il debito al 120% del Pil (come l’Italia, ndr), non ci vuole un gran aumento dei tassi per rendere altissimo l’onere degli interessi e il debito totalmente insostenib­ile. Finchè gli investitor­i credono che il Paese può risanare e accettano un rendimento basso, va bene. Ma se una mattina si svegliano e decidono che il Paese è rischioso, chiederann­o un tasso alto, il Paese non potrà più pagare e gli investitor­i faranno scattare proprio il risultato che temono. Quindi i Paesi alla fine devono avere livelli di debito molto più bassi di quelli attuali. Il problema è a quale velocità ridurre il deficit. Non bisogna illudersi: nel breve periodo, il risanament­o fiscale contrae la domanda e il reddito. Se la crescita è già molto bassa, le sofferenze aumenteran­no molto rapidament­e, le banche saranno in difficoltà, il credito diventerà più scarso e il rischio è una crescita ancora più bassa. Questo suggerisce di procedere lentamente. Allo stesso tempo, se uno dice: comincerò l’anno prossimo, non è credibile. Se i mercati concedono un po’ di spazio, la risposta è procedere a passo costante e misurato. Non più lento, né più rapido.

In Italia gli aumenti di tasse hanno prevalso sui tagli di spesa pubblica. Quanto conta la composizio­ne dell’aggiustame­nto fiscale?

La composizio­ne può essere altrettant­o importante della velocità. Una questione di base è quanto si vuole che sia grande il settore pubblico. La risposta può essere diversa negli Usa e in Europa e determina la scelta fra tagli e tasse. Se si ritiene che il settore pubblico sia troppo grande, si deve puntare sui tagli; altrimenti, sulle tasse. Ci sono altri aspetti rilevanti. Politicame­nte, i programmi che cominciano con i tagli sono più credibili, in quanto sugli aumenti di tasse è più facile fare marcia indietro. Ci sono poi le prove che l’effetto negativo dei tagli sulla crescita è minore di quello di tasse più alte, come hanno dimostrato Alberto Alesina e Silvia Ardagna. Non sono espansivi, ma hanno un impatto negativo minore.

Il problema dei conti pubblici non verrà mai risolto senza crescita, in quanto il risanament­o viene vanificato.

In linea di principio, si può avere sostenibil­ità fiscale anche senza crescita. L’Italia c’è riuscita per molto tempo prima della crisi. Ma la crescita rende molto più facile risolvere il problema delle finanze pubbliche. E, per ottenere una crescita più alta, non solo ora, ma nel medio periodo, quasi certamente c’è bisogno di riforme struttural­i. Nel caso dell’Italia, sappiamo quali sono le opzioni: riforme dei mercati dei prodotti, riforme del mercato del lavoro. È veramente preoccupan­te che l’Italia abbia avuto una crescita della produttivi­tà così scarsa per un periodo così lungo.

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BLOOMBERG Allarme stagnazion­e. Olivier Blanchard, chief economist dell’Fmi

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