La crisi nelle mani di Napolitano, alla ricerca di un’intesa istituzionale
Il segretario del Pd ha condotto con grande impegno e onestà intellettuale la sua settimana da «esploratore». Senza dubbio ha perso un po’ troppo tempo impigliandosi nella ragnatela delle consultazioni, ma ha fatto quello che la sua coscienza gli suggeriva. Alla fine nessuno dei nodi politici è stato sciolto. Il suo fallimento è sotto questo profilo il fallimento di una storia politica, quella del centrosinistra così come è venuto configurandosi negli anni dalla transizione, attraverso il lungo trapasso da Pds a Ds a Pd. Con tutti i limiti di una sinistra incompiuta come forza seriamente riformatrice.
Questa storia si è forse conclusa ieri sera, quando Bersani ha dovuto alzare bandiera bianca con malinconia, ma senza mascherare un certo risentimento verso le scelte del «signor presidente». Qui si avvertiva tutto il dramma politico che si è andato consumando. Da un lato, la volontà bersaniana di andare avanti con il Governo di minoranza per presentarsi alle Camere nella speranza di spaccare il Movimento 5 Stelle. Dall’altro, la ferma volontà di Napolitano di «esplorare» anche in altre direzioni, in vista di verificare la reale disponibilità di un ampio arco parlamentare (centro, centrodestra, per alcuni aspetti anche i "grillini") a convergere su un programma limitato ma chiaro: poche riforme ben individuate, tra cui la legge elettorale.
Due vie diverse e a quanto pare inconciliabili. Ha prevalso, come era ovvio dato il no- stro equilibrio costituzionale, la volontà del presidente della Repubblica. Che si è caricato sulle spalle l’onere di dissodare il terreno che può portare al cosiddetto «governo di scopo», secondo la formula un po’ ermetica che si usa in questi casi. Qual è il vantaggio e quale il punto debole della svolta?
Il vantaggio è che ora il capo dello Stato prende nelle sue mani in modo solenne l’iniziativa di annodare fra loro i fili. Quei nodi che sul piano politico Bersani non ha saputo o potuto sciogliere, Napolitano li può affrontare sul piano istituzionale, mettendo a disposizione la propria autorità e una forma di costante garanzia. Nessun soggetto ottiene un guadagno politico, però tutti possono sentirsi garantiti dalla «terzietà» del Quirinale e del nuovo incaricato: una figura che si può presumere esterna ai partiti, ma all’interno della storia istituzionale del Paese.
È facile questo percorso? Certo che no, uscire dallo stallo è impegnativo per tutti. Tuttavia, se è agevole dire "no" a Bersani, è molto più difficile e rischioso ripetere lo stesso "no" al presidente della Repubblica. E questo vale per la destra di Berlusconi, ma anche per il Pd di Bersani. Partito che merita rispetto per il suo travaglio, ma dovrà pensarci due volte prima di opporsi al tentativo che adesso in prima persona sta compiendo il capo dello Stato. Se è vero che stiamo assistendo a un passaggio di scenario storico, i democratici hanno tutto l’interesse a non lacerarsi sul punto più delicato: il rapporto con il Quirinale.
Certo, siamo vicini all’elezione del successore di Napolitano. Ed è un fattore di debolezza. Ma proprio i casi delle ultime ore dimostrano che bisogna evitare che il Colle diventi occasione per un "far west" parlamentare. C’è ancora tempo e modo di trovare un’intesa trasparente sul nome. Che dovrà corrispondere a un identikit molto simile a quello di Napolitano, visto che dovrà poi svolgere lo stesso ruolo. Anche rispetto al possibile "governo del presidente".