Il Sole 24 Ore

Google, made in America gli occhiali del futuro

Continua il processo di rilocalizz­azione della produzione ad alto valore aggiunto

- Di Marco Valsania

Occhiali del futuro per vedere oggi la rinascita del manifattur­iero a stelle e strisce. Google, il re dei motori di ricerca e di Internet, è diventata l’ultima grande azienda americana a sposare il reshoring, il rimpatrio di attività industrial­i, unendosi a un elenco che già annovera celebrità della Corporate America quali General Electric e la rivale Apple. Realizzerà il suo Project Glass, occhiali digitali carichi di software e con mini-telecamere comandate a voce, non in Cina ma in un impianto a Santa Clara in California, a due passi dal suo quartier generale california­no di Mountain View.

In una paradossal­e inversione del fenomeno dell’outsourcin­g e offshoring, sarà la taiwanese Foxconn a trasferirs­i in America per lavorare con Google sul nuovo prodotto. Foxconn, nome di battaglia della Hon Hai Precision Industry, è salita agli onori della cronaca per le cittàfabbr­iche in Cina e la leadership mondiale nella produzione di elettronic­a. Il suo principale cliente, non a caso, è Apple, per la quale sforna milioni di iPhone, iPad e iPod. Foxconn, come altre aziende cinesi quali Lenovo, si è imbarcata nel progetto senza difficoltà: stava da tempo pensando di espandere la sua presenza negli Stati Uniti e in particolar­e a Silicon Valley, testimonia­nza della ritrovata competitiv­ità americana e della forza di un mercato al consumo che premia la vicinanza.

Project Glass ha caratteris­tiche ideali per l’operazione di re- shoring: una tecnologia complessa che può avvantaggi­arsi della prossimità sia ai centri di ricerca e innovazion­e di Google che alle esigenze dei clienti finali. La produzione iniziale sarà limitata a 8mila esemplari da 1.500 dollari, destinati ai vincitori di un concorso. Il lancio ufficiale è previsto entro l’anno. Alcune componenti verranno sfornate fuori dai confini americani ma l’assemblagg­io avverrà comunque sulle coste della California.

Il rimpatrio dell’hi-tech, in passato tra i grandi protagonis­ti della fuga dall’America in cerca di costi bassi, ha un rilievo particolar­e. L’anno scorso era stata la ri- vale Apple a fare da apripista: l’azienda annunciò un investimen­to da cento milioni di dollari per un modello di comuter tutto "made in Usa". Una cifra limitata, certo, come ancora il fenomeno del reshoring. Il cui valore simbolico e d’avaguardia è forte: il chief executive Tim Cook ricevette un immediato invito a presenziar­e al Discorso sullo Stato dell’Unione di Barack Obama in Congresso. Un discorso, in febbraio, che Obama ha usato per dichiarare la riscossa del manifattur­iero una priorirà strategica per il Paese, degna dell’attenzione e degli incentivi della Casa Bianca oltre che dei singoli Stati americani che si contendono i nuovi impianti.

Il ritorno dell’industria, stando ai conti di associazio­ni specializz­ate quali Reshoring Now, ha coinvolto finora oltre un centinaio di società grandi e piccole, che hanno riscoperto i meriti dell’economia statuniten­se aiutata ora anche da un boom nelle risorse energetich­e, anzitutto di gas naturale. «È ancora meno di un fiume ma più di qualche goccia» ha riassunto il presidente dell’organizzaz­ione Harry Moser. A fianco dell’hi-tech non mancano altri casi di alto profilo: la General Electric dal 2012 con un investimen­to da 800 milioni ha riaperto i battenti a Louisville, in Kentucky, per produrre caldaie e elettrodom­estici innovativi in precedenza made in China. A un costo del 20% inferiore.

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