Per l’iva omessa sanzioni anacronistiche
La crisi economica mette in difficoltà il sistema; anche quello sanzionatorio. Ciò, non tanto perché in tempi di difficoltà il deterrente delle sanzioni è annacquato nella morsa della necessità: il rischio di una futuribile sanzione è, insomma, inevitabilmente meno impellente della sopravvivenza quotidiana dell’impresa. Piuttosto perché in tempi di crisi, per definizione straordinari, gli ordinari strumenti di contrasto a comportamenti illeciti finiscono per apparire irrimediabilmente anacronistici.
È quanto accade nel caso di mancato versamento dell’Iva dichiarata, sanzionato dall’articolo 10-ter del decreto legislativo 74/2000, in base al quale è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versi, per un ammontare superiore a 50mila euro per periodo d’imposta, l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo (27 dicembre).
Tradizionalmente, la norma trae fondamento dall’assunto che l’Iva dichiarata altro non è che Iva addebitata dall’operatore ai propri cessionari/committenti; di conseguenza, analogamente all’ipotesi gemella dell’articolo 10-bis (omesso versamento di ritenute certificate), da cui mutua i profili strutturali, la sanzione sarebbe diretta a contrastare i comportamenti d’indebita ritenzione di un’imposta da riversare allo Stato. È evidente, però, che una simile sanzione diventa iniqua se non irrazionale quando, come sempre più spesso accade, l’Iva fatturata non è anche Iva incassata entro il termine (forse congruo in tempi ordinari, ma che oggi, in piena crisi, lo è sempre meno) prescritto per il versamento. Anche perché, non si può dimenticare, l’omesso pagamento non consente la nota di variazione ai fini Iva (articolo 26 del Dpr 633/72), se non all’esito di procedure concorsuali o esecutive rimaste infruttuose. Si viene così a determinare una situazione paradossale, in cui si rischia di sanzionare il mancato anticipo allo Stato dell’Iva addebitata, ma non pure incassata, dall’operatore: una situazione, questa, ben diversa da quella dell’omesso versamento di ritenute certificate, dove effettivamente vi sono somme dovute all’Erario, indebitamente trattenute. Da qui, la convinzione di un necessario ripensamento del reato di omesso versamento dell’Iva dichiarata, che va oltre le aperture della giurisprudenza sul problema della crisi di liquidità (Tribunale Firenze del 10 agosto 2012), per investire la razionalità stessa della norma in una fase, come quella attuale, dove minaccia addirittura di intaccare la neutralità dell’Iva.
Peraltro, la criticità evidenziata non appare risolta neppure dalla nuova Iva per cassa (articolo 32-bis del Dl 83/2012), che - di fatto - allunga solo il termine del versamento. L’imposta è comunque esigibile decorso un anno dall’effettuazione dell’operazione, salvo che il cessionario/committente sia assoggettato a procedure concorsuali: un’ipotesi, questa, che rischia così di diventare una "strada obbligata" per scongiurare l’applicazione della sanzione penale. Ma anche questo appare irrazionale.