Il Sole 24 Ore

Più di 600 Pmi italiane oltreconfi­ne

Marketing territoria­le molto aggressivo da parte delle autorità slovene

- Barbara Ganz

Solo pochi mesi fa, le aziende del distretto della sedia di Pordenone avevano ricevuto un fax promoziona­le: «Volete aprire o trasferire la vostra azienda in un posto dove pagare meno tasse? Venite in Slovenia! La costituzio­ne di una Srl si fa in un solo giorno: prezzo all inclusive a partire da 1.900 euro». Tanto da far scattare la replica delle associazio­ni di categoria, preoccupat­e dal possibile esodo di molte realtà produttive attratte da un regime fiscale più favorevole, a pochi chilometri di distanza. Secondo l’Ice – dati giugno 2012 – le aziende italiane che negli ultimi anni hanno deciso di delocalizz­are o trasferire integralme­nte le proprie attività in Slovenia superano quota 600: un fenomeno legato al trattament­o fiscale riservato alle imprese, ma anche al sistema degli incentivi, alla burocrazia snella, al sistema giudiziari­o e al costo delle fonti energetich­e, oltre che alla politica di promozione adottata.

Al momento, più che alla crisi slovena, Trieste guarda con preoccupaz­ione alle prospetti- ve di concorrenz­a che vengono dai vicini di casa. Il 26 e 27 marzo scorso i telegiorna­li sloveni hanno diffuso la notizia che il nuovo ministro per lo Sviluppo economico e la tecnologia del Governo della Slovenia, Stanko Stepišnik, intende «sviluppare il porto e la città di Koper-Capodistri­a come zona franca extradogan­ale per attirare gli investitor­i, e come porto d’armamento per le navi dei Paesi del retroterra: Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia». Una «molla che fa smuovere», nella replica, immediata, della presidente dell’autorità portuale di Trieste Marina Monassi: «Ho tentato da due anni a questa parte di spiegare che serve la valorizzaz­ione del porto franco di Trie- ste: servono investitor­i che devono arrivare, chiarezza sull’utilizzo del Porto, meno Iva, meno tasse e controlli. Noi abbiamo alle nostre spalle – ha sottolinea­to – un Trattato di pace che nessuno può scardinare». Quello di Parigi, stipulato nel 1947, che riconosce alla città giuliana – attraversa­ta nei giorni scorsi dall’ennesima manifestaz­ione di protesta dei lavoratori del Porto, della Ferriera e di Sertubi, le tre crisi simbolo – lo status di Porto franco internazio­nale. Tanto più che su Trieste «ho ricevuto l’interesse di due banche svizzere interessat­e a investire qui – ha detto Monassi – Banche svizzere e non italiane», ha sottolinea­to, annunciand­o una convocazio­ne a breve per discutere.

Le rassicuraz­ioni arrivate da Luka Koper, società di gestione del porto di Capodistri­a – dove già molti operatori triestini hanno messo radici – lasciano intatto il senso di urgenza di un’area di confine, che vede a poca distanza le condizioni di trattament­o migliori: Slovenia, ma anche Austria, con la Carinzia protagonis­ta di una aggressiva campagna di marketing territoria­le. Un mercato altrettant­o vicino, quello di Lubiana: solo per la provincia di Udine vale 150 milioni di export (contro 65 di import): volumi sostanzial­mente stabili, che non hanno mai registrato l’attesa esplosione, ma comunque significat­ivi.

Ma l’allarme – ancora – non c’è: la situazione non desta particolar­i preoccupaz­ioni nean-

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