Gli incentivi tornano in pista
Giusti i fini del Fondo, non il rinvio dei crediti d’imposta alla ricerca
Se le imprese sono donne, possono festeggiare la firma che lo scorso 8 marzo i ministri Passera e Grilli hanno finalmente posto sotto il decreto interministeriale attuativo del nuovo "Fondo per la crescita sostenibile", con cui si recuperano circa 630 milioni di euro non spesi dalle 43 leggi di incentivi ormai abrogate e quindi, senza oneri aggiuntivi per il bilancio pubblico, si tenta il rilancio di una nuova moderna politica industriale. Come previsto, non vi è traccia (a parte un liturgico richiamo nella relazione illustrativa del decreto) del rapporto Giavazzi dello scorso giugno, in cui si proponeva di rimpiazzare larga parte dei sussidi nazionali e regionali alle imprese (stimata arditamente in una cifra di 10 miliardi) con una riduzione del cuneo fiscale e contributivo a vantaggio delle imprese e del salario netto dei lavoratori e conseguente stimolo alla crescita.
Il decreto contiene diverse interessanti novità, accogliendo suggerimenti avanzati in passato anche su questo giornale, pur se - date le risorse finanziarie purtroppo così limitate - rinvia ai futuri governi il ricorso ai crediti d’imposta automatici e strutturali sulla ricerca industriale, uno strumento certo più costoso ma ampiamente utilizzato nei paesi nostri maggiori concorrenti e fortemente richiesto da Confindustria. È pur vero che diverse ricerche empiriche condotte con metodi diversi (Banca d’Italia, Istat, lo stesso Mise) giungono a conclusioni piuttosto scettiche sull’efficacia di tale strumento, cioè la capacità di attivare investimenti in ricerca al di là di quelli che comunque le imprese farebbero anche in assenza di incentivo pubblico ("effetto addizionalità").
Ma va anche detto che tali riscontri negativi, non riscontrabili in altri paesi, risentono con ogni probabilità delle modalità distorte con cui questi crediti d’imposta sono stati da noi somministrati (discontinuità nel tempo, selezione arbitraria col "click day"): moda- lità che hanno disincentivato l’accesso da parte di molte imprese potenzialmente più in grado di adottare strategie coraggiose e lungimiranti.
Gli aspetti più interessanti rintracciabili nel decreto concernono finalità, priorità e modalità attuative. Vale comunque la riserva di giudizio (d’obbligo in Italia) suggerita dalle numerose esperienze negative che continuiamo a riscontrare, a causa dell’esiziale combinazione di una normativa volatile e troppo complessa con una imple- mentazione burocratica lenta, opaca e aperta a tentazioni di corruttela.
Finalità. Forte ed esplicito ancoraggio dei programmi e progetti al Programma Quadro europeo "Horizon 2020", incentivando così le imprese beneficiarie dei sussidi a sviluppare innovazioni di prodotto e di processo lungo le ormai note "tecnologie abilitanti fondamentali". Sono tecnologie che la stessa Commissione Ue definisce di "rilevanza sistemica" per promuovere una robusta competitività nel mercato globale e favorire la creazione di posti lavoro altamente qualificati (Dio sa quanto ne abbiamo bisogno).
Parliamo innanzi tutto delle Tic (Tecnologie dell’Informazione e Comunicazione), non abbastanza coltivate dalle nostre Pmi ancora poco consapevoli del crescente contenuto di servizi professionali avanzati nel cuore dell’industria manifatturiera. Ma l’elenco include tecnologie altrettanto trasversali tra settori, come nanotecnologie, materiali avanzati, biotecnologie automazione, robotica, sistemi di rilevamento e navigazione satellitare e altri ancora. Sono formidabili le ricadute di queste tecnologie per accrescere la produttività tramite nuovi prodotti e processi anche nei settori merceologici tradizionalmente considerati low-tech o low-medium tech, come alimentari, tessile, arredo, costruzioni, metallurgia.
Priorità e modalità attuative.