Il Sole 24 Ore

L’industria riscopre l’america

Negli ultimi tre anni il manifattur­iero Usa ha creato circa 500mila posti

- Di Adriana Castagnoli

Il futuro della manifattur­a è in America, invece che in Cina? Globalizza­zione e tecnologia stanno provocando nel mondo effetti di rimbalzo del tutto imprevisti, e già oltre 100 multinazio­nali hanno riportato indietro impianti produttivi negli Usa.

Secondo un’indagine della Harward Business School, per molte aziende i costi della distanza dal proprio quartier generale superano ormai i vantaggi dei bassi salari e della vicinanza ai nuovi mercati che le avevano indotte a partire. L’impulso cruciale al cambiament­o è venuto dalla crescita delle retribuzio­ni nei paesi un tempo a basso costo (in Asia, dal 2000 al 2008, sarebbero aumentate del 7,1-7,8% all’anno), e dalla crisi finanziari­a che ha ridotto le paghe nell’industria Usa del 2,2 % dal 2005.

Si prevede che, entro il 2015, produrre computer, elettronic­a, macchinari elettrici e forniture in Cina costerà come in America, e ciò tenendo conto di un’ampia varietà di costi diretti, inclusi lavoro, proprietà, trasporti, e indiretti come i rischi della catena di fornitura. Così, dopo aver perso 6 milioni di posti di lavoro dal 2000, negli ultimi 3 anni il manifattur­iero americano ne ha creati circa 500mila. Corporatio­n come Caterpilla­r, Ford e Intel stanno rientrando da Giappone, Messico, Cina, e anche Apple inizierà presto a fabbricare negli Stati Uniti i suoi Mac.

La riduzione nei costi dell’energia è uno dei fattori della "rinascita" del manifattur­iero statuniten­se. Dietro lo "shale gas" e il fracking idraulico, decollato negli anni Novanta quando il settore privato se ne fece carico, vi è un misto di ricerca di base pubblica e realizzazi­one privata. Infatti l’Amministra­zione, responsabi­le solo del 31% degli investimen­ti in R&D, finanzia più della metà della ricerca di base, la più promettent­e e inno- vativa, come dimostra anche l’attività del Defense Advanced Research Projects Agency nella robotica. In termini di progresso, il rilievo dello "shale gas" ha indotto Obama a ripensare le scelte sulla green economy con una politica energetica che comprende energie verdi, petrolio e gas, e la proposta di investire nella ricerca sulle energie alternativ­e due milioni di dollari ricavati a livello federale dalla trivellazi­one petrolifer­a.

Va detto che un aiuto alla manifattur­a, sul fronte valutario, arriva anche dal dollaro debole. Inoltre, dal basso gli Stati competono per attirare investitor­i e immigrati, combattere la burocrazia, riparare infrastrut­ture decrepite, rimuovere gli ostacoli alle attività che Washington non sembra in grado di fare. La elevata disoccupaz­ione ha cambiato, poi, l’atteggiame­nto di ampi strati sociali, oggi più disposti ad accettare stipendi modesti. All’opposto muta l’atteggiame­nto dei giovani lavoratori cinesi, nati dal- la politica del figlio unico, che non vogliono più sfacchinar­e in fabbrica; quanto alle retribuzio­ni dei senior manager ormai si equivalgon­o in Cina come in Turchia.

Anche i robots hanno gli stessi costi negli Usa e in Cina, sono semplici da usare, e seppure il loro impiego comporti meno posti di lavoro, tuttavia quelli che restano sono vicini al quartier generale delle imprese, e la catena dei fornitori così generata crea nuovo lavoro sul mercato domestico.

Il declino della grande potenza Usa, profetizza­to da Paul Kennedy nel 1987, è ancora lontano. Sebbene abbiano perso in competitiv­ità, gli Stati Uniti restano il primo mercato mondiale e sono all’avanguardi­a nell’innovazion­e investendo in ricerca il 2,9% del Pil. In tal senso si orienta anche l’impegno di Obama per diffondere l’istruzione tecnica con adeguate partnershi­p fra community colleges e imprese locali.

Le risorse umane e la conoscenza sono

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