L’industria riscopre l’america
Negli ultimi tre anni il manifatturiero Usa ha creato circa 500mila posti
Il futuro della manifattura è in America, invece che in Cina? Globalizzazione e tecnologia stanno provocando nel mondo effetti di rimbalzo del tutto imprevisti, e già oltre 100 multinazionali hanno riportato indietro impianti produttivi negli Usa.
Secondo un’indagine della Harward Business School, per molte aziende i costi della distanza dal proprio quartier generale superano ormai i vantaggi dei bassi salari e della vicinanza ai nuovi mercati che le avevano indotte a partire. L’impulso cruciale al cambiamento è venuto dalla crescita delle retribuzioni nei paesi un tempo a basso costo (in Asia, dal 2000 al 2008, sarebbero aumentate del 7,1-7,8% all’anno), e dalla crisi finanziaria che ha ridotto le paghe nell’industria Usa del 2,2 % dal 2005.
Si prevede che, entro il 2015, produrre computer, elettronica, macchinari elettrici e forniture in Cina costerà come in America, e ciò tenendo conto di un’ampia varietà di costi diretti, inclusi lavoro, proprietà, trasporti, e indiretti come i rischi della catena di fornitura. Così, dopo aver perso 6 milioni di posti di lavoro dal 2000, negli ultimi 3 anni il manifatturiero americano ne ha creati circa 500mila. Corporation come Caterpillar, Ford e Intel stanno rientrando da Giappone, Messico, Cina, e anche Apple inizierà presto a fabbricare negli Stati Uniti i suoi Mac.
La riduzione nei costi dell’energia è uno dei fattori della "rinascita" del manifatturiero statunitense. Dietro lo "shale gas" e il fracking idraulico, decollato negli anni Novanta quando il settore privato se ne fece carico, vi è un misto di ricerca di base pubblica e realizzazione privata. Infatti l’Amministrazione, responsabile solo del 31% degli investimenti in R&D, finanzia più della metà della ricerca di base, la più promettente e inno- vativa, come dimostra anche l’attività del Defense Advanced Research Projects Agency nella robotica. In termini di progresso, il rilievo dello "shale gas" ha indotto Obama a ripensare le scelte sulla green economy con una politica energetica che comprende energie verdi, petrolio e gas, e la proposta di investire nella ricerca sulle energie alternative due milioni di dollari ricavati a livello federale dalla trivellazione petrolifera.
Va detto che un aiuto alla manifattura, sul fronte valutario, arriva anche dal dollaro debole. Inoltre, dal basso gli Stati competono per attirare investitori e immigrati, combattere la burocrazia, riparare infrastrutture decrepite, rimuovere gli ostacoli alle attività che Washington non sembra in grado di fare. La elevata disoccupazione ha cambiato, poi, l’atteggiamento di ampi strati sociali, oggi più disposti ad accettare stipendi modesti. All’opposto muta l’atteggiamento dei giovani lavoratori cinesi, nati dal- la politica del figlio unico, che non vogliono più sfacchinare in fabbrica; quanto alle retribuzioni dei senior manager ormai si equivalgono in Cina come in Turchia.
Anche i robots hanno gli stessi costi negli Usa e in Cina, sono semplici da usare, e seppure il loro impiego comporti meno posti di lavoro, tuttavia quelli che restano sono vicini al quartier generale delle imprese, e la catena dei fornitori così generata crea nuovo lavoro sul mercato domestico.
Il declino della grande potenza Usa, profetizzato da Paul Kennedy nel 1987, è ancora lontano. Sebbene abbiano perso in competitività, gli Stati Uniti restano il primo mercato mondiale e sono all’avanguardia nell’innovazione investendo in ricerca il 2,9% del Pil. In tal senso si orienta anche l’impegno di Obama per diffondere l’istruzione tecnica con adeguate partnership fra community colleges e imprese locali.
Le risorse umane e la conoscenza sono