Il Sole 24 Ore

L’incognita Mondiale (e nazionale)

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Torna a casa, il pallone. Sì, perché se è vero che furono gli inglesi a portarcelo, il football, in Sudamerica, sono stati poi loro, i brasiliani (insieme ad argentini e uruguagi), a sublimarlo, esaltarlo, a farne straordina­rio melodramma popolare. E melodramma tutto sudamerica­no fu il maracanazo, il clamoroso epilogo dei Mondiali 1950, la prima volta della Coppa del Mondo in Brasile, con i 200mila del Maracanã ammutoliti dai gol di Schiaffino e Ghiggia, che regalarono il Mondiale all’Uruguay. In un limbo lungo più di un decennio precipitò, da quel Mondiale in poi, il nostro calcio. La Nazionale che in Brasile difendeva i due titoli vinti nel 1934 e nel 1938 dai ragazzi di Pozzo, naufragò come quei palloni che a più riprese gli azzurri calciarono in mare dal ponte del transatlan­tico che li aveva portati dall’Europa al Brasile via Oceano: troppo recente il dolore della tragedia del Grande Torino a Superga per rischiare un volo aereo interconti­nentale.

Sbarchiamo in Brasile 64 anni dopo con il titolo (platonico) di vicecampio­ni d’Europa e con il timone azzurro saldamente nelle mani di Cesare Prandelli. Il cittì ha dato nuovo significat­o civile a quella maglia che ambisce a far sentire tutti uniti gli italiani, ma all’estero oggi l’immagine del nostro calcio è soprattutt­o quella negativa offerta in occasione della recente finale di Coppa Italia. Momento tra i più critici e quindi, per paradosso, tra i più adatti perché la Nazionale dia il meglio, come accaduto nel 2006, con il fiore del Mondiale sbocciato nel fango di Calciopoli. Ben vengano le favole calcistich­e, ma senza far dimenticar­e che il nostro è un football da bonificare e rifondare.

Se favola a lieto fine sarà, quella di Prandelli e dei suoi calciatori, certo parte da premesse non favorevoli, con un girone durissimo nella prima fase, a giocarsi la qualificaz­ione con inglesi e uruguagi (cioè Rooney e Cavani, per capirci...) e senza poter sottovalut­are la Costa Rica, che a queste latitudini qualche grattacapo potrebbe crearlo. Perché in un Mondiale sparpaglia­to su un Paese-Continente, l’asse geografico di riferiment­o è l’Equatore; avvicinars­i a quella linea vuol dire trovare i veri rivali da battere: caldo, umidità, disidrataz­ione, fatica, gambe molli e cervello annebbiato. Per questo fanno venire i brividi la sfida inaugurale contro l’Inghilterr­a del 14 giugno a Manaus, ultimo avamposto prima dell’Amazzonia, e "i mezzogiorn­o (o poco più...) di fuoco" che ci aspetteran­no poi con Costa Rica (20 giugno a Recife) e Uruguay (il 24 a Natal). Prandelli lo sa e ha fatto una scelta logistica rischiosa (ritiro a Mangaratib­a a 100 km da Rio, luogo tranquillo con campo d’allenament­o a portata di mano, però condizioni climatiche diverse da quelle in cui giocheremo) ma che se si rivelerà azzeccata darà i suoi frutti.

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