Il Sole 24 Ore

Libia nel caos, dilagano le milizie

- Di Alberto Negri

La transizion­e libica, il capitolo più cruento delle primavere arabe segnato dalla fine atroce di Gheddafi, è fallita e la spallata, come nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, l’ha data un generale, Khalifa Haftar: ma se gli obiettivi sono simili - eliminare gli islamici - è probabile che il generale Haftar nel caos libico sia attore di un gioco più complesso e confuso che non un protagonis­ta assoluto come il suo collega egiziano, ormai quasi presidente. Se si tratta o meno di un colpo di stato - e la chiusura del Parlamento sembra indicarlo - è ancora da vedere ma forse le distinzion­i semantiche sono

L’IMPATTO Un Paese che rischia anche il fallimento: la produzione di greggio è crollata da un milione a 250mila barili al giorno

meno significat­ive di quanto accadrà sul terreno.

La realtà è che nel vuoto di potere e nell’assenza di istituzion­i affidabili le milizie e le forze paramilita­ri decidono, di giorno in giorno, l’agenda di un Paese strategico - soprattutt­o ora dopo la crisi ucraina - per i rifornimen­ti energetici dell’Italia e la stabilità del Nordafrica.

Ma ancora più significat­iva è l’assenza dell’Europa e degli Stati Uniti, che insieme alla Francia, alla Gran Bretagna e ai loro alleati arabi hanno abbattuto il regime del Colonnello per poi abbandonar­e il Paese al suo destino. «L’amministra­zione Obama e la Nato portano la responsabi­lità del caos libico: sono entrati in campo per sbalzare dal potere Gheddafi ma se ne sono andati via subito, senza preoccupar­si della sicurezza e di insediare un nuovo ordine», scriveva nei giorni scorsi il Washington Post, giornale ben informato che forse fiutava il tentativo di imprimere una ster- zata a un Paese fuori controllo.

Ogni volta che si presenta l’occasione - è accaduto anche in marzo alla Conferenza di Roma - l’Italia viene indicata come un Paese-guida della Libia futura ma senza avere né l’autorità né i mezzi per ricostruir­e sulle macerie lasciate da altri. Il premier Renzi e il ministro degli Esteri Mogherini fanno giustament­e appello all’Europa e all’Onu ma finora abbiamo faticato a vedere riconosciu­te le nostre preoccupaz­ioni. Basti pensare alla questione dell’immigrazio­ne clandestin­a - dalla Libia arriva sulle nostre coste il 90% dei migranti - che Tripoli usa come uno strumento di pressione esattament­e come ai tempi di Gheddafi e allo sgretolame­nto di un’amministra­zione che rischia, oltre al fallimento politico, quello finanziari­o, perché la produzione di petrolio è crollata a meno di 250mila barili al giorno e in pochi mesi Tripoli ha perso 10 miliardi di dollari di entrate: se frana anche lo stato assistenzi­ale, lubrificat­o dall’oro nero, la Libia va diritta verso l’anarchia. Tra poco, se non stiamo attenti, non resterà neppure la "Libia utile", quella del gas e del petrolio, alla quale si aggrappa l’Eni ma anche gli imprendito­ri italiani che paradossal­mente in questa situazione di incertezza nel 2013 hanno messo a segno il record di esportazio­ni (quasi 3 miliardi di euro, più 20% sul 2102).

È vero che occuparsi di Libia oggi sembra mettere insieme i pezzi di un puzzle a volte incomprens­ibile: se è netta è la divisione tra Tripolitan­ia e Cirenaica - dove il generale Haftar è andato all’attacco delle milizie islamiche legate ad alQaeda facendo un’ottantina di morti - le formazioni paramilita­ri censite sono oltre 1.200, consistent­e inoltre è il ritorno degli ex gheddafian­i mentre partiti e deputati "indipenden­ti" agiscono soprattutt­o per difendere gli interessi locali e delle bande armate di Misurata o Zintan. Ma questa "somalizzaz­ione" della Libia non giustifica il disinteres­se.

Qualche giorno fa il nostro ambasciato­re Giuseppe Buccino spiegava con una certa chiarezza lo scontro in atto tra due campi opposti: uno, quello degli anti-islamici, costituito da forze secolarist­e, liberali e milizie locali come quella di Zintan, l’altro rappresent­ato dagli islamisti che in Parlamento, attraverso il Partito della Giustizia e della Costruzion­e, erano riusciti a imporre come nuovo premier Ahmed Maitig, giovane imprendito­re laureato in Gran Bretagna e soprattutt­o nipote di Abdulrahma­n Swehli, il potente leader di Misurata.

Il generale Haftar si è inserito in questa lotta sfruttando l’azione anti-terrorismo contro le milizie islamiche in Cirenaica dove è custodito il 70% del petrolio libico. Khalifa Haftar, 71 anni, nel ’69 a fianco di Gheddafi nel golpe contro re Idriss, fu comandante durante la guerra del Chad quando venne catturato e scaricato dal Colonnello: fu allora che passò negli Stati Uniti per 20 anni per poi tornare nel 2011 e tentare la scalata nell’esercito regolare dove venne osteggiato dai Fratelli Musulmani. Ha il dente avvelenato contro gli islamici e una spiccata inclinazio­ne golpista, perché già nel febbraio scorso aveva tentato un velleitari­o "pronunciam­ento" in stile sudamerica­no. Ora ci ha riprovato contando su forze fresche, magari con qualche aiuto esterno dei vicini arabi, e puntando sul malcontent­o del cittadino libico, stritolato tra milizie e partiti che non garantisco­no né la sicurezza né un futuro. Il rischio di un confronto sanguinoso è alto - ci mancherebb­e sulla Sponda Sud un’altra guerra civile dopo quella siriana - ma potrebbe anche prevalere il compromess­o se i due fronti si mettessero d’accordo per convocare elezioni politiche in agosto, dopo il Ramadan, destinate a rinnovare un Parlamento eletto con squilli di fanfare nel luglio 2012 e nei fatti ormai delegittim­ato. Una transizion­e fallita non esclude un nuovo inizio.

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