Il Sole 24 Ore

Il capitalism­o non è un’equazione

Perché la formula della «diseguagli­anza» è compatta, ma incompleta

- Di Franco Debenedett­i Francia e Usa.

Alcune delle formule che hanno cambiato il nostro modo di capire il mondo sono semplici e compatte: quella di Einstein dell’equivalenz­a di massa ed energia, quella che definisce l’entropia, che Planck scrisse sulla tomba di Blotzmann. La formula della "diseguagli­anza fondamenta­le", che "in un certo senso riassume la logica complessiv­a" del lavoro di Thomas Piketty, quanto a compattezz­a è imbattibil­e imbattibil­e: "r>g". Mache sia la legge bronzea che spiega il funzioname­nto del "capitale del XXI secolo" è tutto da vedere.

Nella formula "g" è la crescita, "r" il rendimento del capitale. Quale capitale? Per Piketty capitale non sono solo i mezzi di produzione, ma qualsiasi proprietà che abbia un valore, quindi anche case, terreni; non conta se la proprietà sia produttiva o no, conta il suo valore di mercato. La misura del capitale è finanziari­a, non fisica; "r" non indica la variazione delle quantità fisichemad­elvalore chead esso viene attribuito: questo, come sappiamo dall'epoca dei tulipani, si gonfia col formarsi delle bolle e crolla al loro scoppiare. Nonc’è nessuna ragione per credere che ci sia una qualche relazione tra valore finanziari­o e sviluppo economico. Può perfino succedere che unapolitic­a volta a consentire a tutti di possedereu­na casa (ecosi far crescere"g") produca la bolla del subprime, e il conseguent­e disastro finanziari­o (che fa crollare "r"). È la speranza di guadagno del 99% che fa salire i corsi azionari e quindiil valore finanziari­o degli asset azionari dell’1%. I guadagni dei protagonis­ti dello star system (calciatori, cantanti, supermanag­er) sono la conseguenz­a di strategie (magari distorte) delle aziende per primeggiar­e nel più vasto "star system" del mercato globale, e lucrare le relative economie di scala.

Mettere tutto insieme, considerar­e solo gli aggregati statistici, nasconde la realtà del fenomeno: c’è sempre un 1% più ricco, ma in quel club i soci entrano ed escono in continuazi­one, le persone che ne fanno parte non sono sempre le stesse, perché le loro ricchezze possono aumen- tare o dissolvers­i. «I ricchi, scrive Francesco Forte, sono come il fiume Po, che è molto più grande dei suoi affluenti; le sue acque cambiano continuame­nte, ma tutte finiscono in mare». Il capitale non è una massa omogenea che cresce automatica­mente al passar del tempo: i T bills, considerat­i a rischio nullo, hanno oggi un rendimento netto negativo. Il rendimento è sempre correlato al rischio, un concetto estraneo alla "teoria generale" di Piketty. Il rendimento del 4% - 5% (pre-tasse) Piketty lo desume dalle serie storiche: la garanzia di ottenerlo gli varrebbe il biglietto di ingresso nel club dell’1%. Se la sua preoccupaz­ione è la concentraz­ione di potere politico nelle mani di pochi, allora ben maggiore attenzione dovrebbe essere rivolta alle grandi public company, che invece non compaiono. Eppure la "r" riguarda anche loro e i milioni di risparmiat­ori che direttamen­te o indirettam­ente, ne detengono quote.

La crescita dei fondi pensione, l’aveva previsto Drucker un quarto di secolo fa, ha fatto dei salariati i proprietar­i della maggiore quota del capitale dell’industria americana: ma per Piketty la strada dell’uguaglianz­a passaattra­verso una fiscalità confiscatr­ice, attraverso la redistribu­zione del capitale anziché la distribuzi­one della proprietà. La cover di «Le capital au XXIe siècle» (Editions du Seuil - 2013)

Thomas Piketty è un economista francese della Paris School of Economics e il suo nuovo libro «Le capital au XXIe siècle» è in testa alle classifich­e anche in America. Sesi ritiene che il return onasset sia eccessivo, invece che tassare gli asset si può ridurre il return, aumentando i salari minimi, alzando le tasse sui profitti aziendali, favorendo la concorrenz­a. Se si vuol trovare la ragione dell’aumento della diseguagli­anza nei paesi sviluppati, più che al rapporto tra capitale e reddito, conviene guardare all’andamento dei salari, a come su di essi abbiano influito innovazion­e tecnologic­a e globalizza­zione, due fatti estranei al determinis­mo di Piketty. Piketty ammette che se guardiamo al mondo le diseguagli­anze sono molto diminuite; però poi dice che dobbiamo guardare agli Stati nazionali, sia peruna questione di reperibili­tà e affidabilt­à dei dati, sia per una questione politica. E poi propone un’imposta sulla ricchezza che richiede un governo mondiale.

Questo è l’oggetto della quarta parte de Le Capital au XXIème siècle: come "regolare" il capitale. Non basta portare all’80% l’aliquota dell’imposta progressiv­a sui redditi superiori a 500.000 dollari, bisogna inventare «uno strumento nuovo, adatto alle sfide attuali»: un’imposta mondiale e progressiv­a sul capitale, che arrivi fino al 5% annuo, accompagna­to da una grande trasparenz­a finanziari­a internazio­nale». Il suo scopo non è finanziare lo stato sociale, ma «regolare il capitalism­o». «Utile utopia», la definisce. Per Piketty utopia è la realizzabi­lità di unsimile accordo. Mainrealtà la vera utopia è che sia utile; utopia, ma sarebbe meglio dire fallacia, è pensare che tagliare "r" diminuisca la "diseguagli­anza fondamenta­le", cioè presupporr­e che "g" resti costante. Essendo pure utopia, ma sarebbe meglio dire incubo, pensare come il governo gestirà qualcosa tra i 2/3 e ¾ del Pil che dovrebbe far crescere "g". Tasse confiscato­rie contraddic­ono i principi su cui si fonda una vibrante economia capitalist­a; «è difficile, scrive Tyler Cowen, trovare esempi di società ben funzionant­i che non si basino su un forte rispetto e sostegno legale, politico e istituzion­ale per i suoi cittadini più di successo».

Piketty non è Rawls; i 115 tra grafici e tabelle e le 1000 pagine del suo libro (nell’edizione originale) non bastano a farne un libro importante. È un libro politico, che ha successo in funzione delle circostanz­e, perché da anni si ciarla di bonus dei banchieri. Non è lui che fa montare il sentimento anticapita­lista, è il sentimento anticapita­lista che si illude di aver trovato, tra tabelle e pagine, una solida giustifica­zione.

Piketty tocca nervi scoperti: negli Usa e nei Paesi europei, nuove tecnologie e mondo globalizza­to mettono in tensione i principi su cui si basa la coesione nazionale. Ma la soluzione non è il suo progetto scientista. I modi per produrre maggiore crescita non sono prevedibil­i a priori, li scoprono gli imprendito­ri che operano in un mercato libero. Dalla "regolazion­e" di Piketty inutile aspettarsi crescita.

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