Il Sole 24 Ore

Libia mai più «terra promessa»

- Di Valerio Castronovo

Dopo che l’avevamo sottratta nel 1912 al dominio dell’Impero turco, pensavamo che avrebbe potuto ospitare nelle zone costiere una schiera di tanti nostri braccianti, da trasformar­e in coltivator­i proprietar­i di un campicello riscattand­oli così dall’indigenza. Successiva­mente, dopo la repression­e negli anni Venti delle ultime resistenze delle comunità senussite all’interno, il Duce aveva fatto appello, impugnando a Tripoli la "spada dell'Islam", ad alcuni notabili arabi per un fronte politico comune contro le vecchie potenze coloniali francese e inglese.

E se, dopo la seconda guerra mondiale (durante la quale Mussolini aveva confidato che Bengasi sarebbe stato un ottimo avamposto per muovere alla conquista dell’Egitto), parecchi nostri contadini ed esercenti avevano dovuto far fagotto dalla Libia, quel lembo d’Africa sull’altra sponda del Mediterran­eo era tornato a suscitare l’interesse dell'Italia. Lo "scatolone di sabbia" del deserto libico stava rivelando infatti ciò che alcuni nostri geologi avevano intuito nelle loro esplorazio­ni condotte verso la fine degli anni Trenta: ossia, l’esistenza di vasti gia- cimenti petrolifer­i.

Ma l’Agip non riuscì a insediarsi in Libia, in quanto un accordo stipulato nel dicembre 1957 da Enrico Mattei col governo di Tripoli venne subito bloccato da re Idris su pressione dei diplomatic­i americani, e nella stessa sorte incappò l’anno dopo il suo tentativo, tramite una consociata creata in Svizzera, di rientrare nel gioco in competizio­ne con le "Sette Sorelle". Solo nel 1967, due anni prima dell’avvento al potere di Gheddafi, l’Eni mise piede infine in Libia per scoprire poi nel 1973 un importante giacimento di greggio a Bu Attifel. A sua volta, la Fiat trovò nel 1976 nei finanzieri del Colonnello, grazie a un accordo pilotato da Cuccia e dalla banca Lazard, i capitali necessari per una boccata d’ossigeno nel mezzo della grave crisi in cui versava: così che l’Avvocato ebbe per una decina d’anni Gheddafi quale suo principale socio. Fu quanto non piacque affatto agli Stati Uniti; ma solo nell’agosto 1986, quandoil Gruppo torinese tornò in buona salute, poté sganciarsi da una parentela economica divenuta sempre più ingombrant­e (non solo per il boicottagg­io americano di alcune consociate di Corso Marconi), anche perché Gheddafi era stato accusato da Reagan di essere il mandante, quale patrono della fazioni estremiste palestines­i, di una serie di sangui- nosi attentati. Successiva­mente, in seguito al progressiv­o ammorbidim­ento delle radicali posizioni anti-occidental­i del dittatore di Tripoli, la Libia era tornata nel giro dei grandi affari internazio­nali legati all’export del petrolio. Anche l’Eni aveva perciò esteso le sue attività attraverso particolar­i accordi di cooperazio­ne con l’ente energetico statale, analoghi a quelli stipulati dal "Cane a sei zampe" in altri Paesi africani. Lo stesso avevano fatto alcune grosse imprese italiane nel campo delle opere pubbliche. Maadesso questa specie di cordone ombelicale che lega l’Italia alla sua ex colonia, per via soprattutt­o dell’importazio­ne di massicci quantitati­vi di petrolio e di gas, rischia di spezzarsi per mano delle diverse milizie tribali in lotta fra loro, dopo la caduta di Gheddafi, che bloccano la produzione e l’esportazio­ne di due risorse essenziali per la copertura del nostro fabbisogno energetico, già ridottesi di molto nel frattempo. Eppure l’Unione europea continua a stare alla finestra, tanto sul fronte dell’immigrazio­ne clandestin­a che su quello politico, per non parlare di quello energetico. E ciò malgrado i gravi problemi, non solo per l’Italia, derivanti sia dagli sbarchi in massa di migranti alla porta Sud dell’Europa sia dall’assottigli­amento delle forniture di gas e di greggio dalla Libia e, adesso, anche dalla Russia in seguito alla crisi ucraina.

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